A me
fa impressione ogni volta, è come se non mi entrasse in testa; eppure non è
solo cosa naturale, è anche cosa logica. È normale che ognuno abbia la sua
storia, che se la porta addosso, dentro, in tasca o sulla schiena. Ma ogni
volta mi lascio sorprendere impreparata quando le storie si raccontano.
In questi ultimi cinque giorni abbiamo molto girato; Dedougou, Nouna, Kwentu,
Bobo …con Ivana, missionaria italiana da 34 anni in Burkina Faso.
Di casa in casa, con l’immenso onore di entrare nei cortili e nelle storie
della gente incontrata.
Storie incredibili, perché davvero non si può credere che siano vere. Ma
soprattutto io faccio fatica a capire come facciano ad andare in giro, al
mercato, a scuola, per strada, sulla bicicletta, sorridendo e salutando con
quello che si portano dentro.
Ci sono loro, i giovani dei licei e delle università. Loro che pur di
permettersi di studiare mangiano gli avanzi delle mense, se avanzano; che
dormono in cinque in una stanza che a noi servirebbe come sgabuzzino, per
terra, col caldo, il freddo e gli animali. Loro che li trovi chinati sui libri,
in piedi o seduti sotto i grandi lampioni degli incroci delle città: luce per
studiare che ancora nelle case non arriva.
C’è Thiarry, diciotto anni, madre morta di aids, ha cresciuto un fratellino, ha
cucinato per tutta la famiglia, preso l’acqua dal pozzo, è andato tutti i
giorni al mercato, intanto sta frequentando le superiori. Poi è stato
allontanato da casa dalla seconda moglie di suo padre, ora paralizzato in tutta
la sua parte sinistra del corpo. Vive con due cugini e Madeline, una di quelle
che dorme in cinque in una stanza per uno. I primi due vogliono cacciarlo da
lì. Non può più rivendicare i suoi diritti perché non ha più l’età. E, non si
vede, ma è arrabbiato. E si rifiuta di mangiare in casa; allora esce da scuola
alle 17 e due ore dopo parte a lavorare fino all’una, per guadagnare 500 franchi,
uscire e cercare qualcosa con cui riempirsi lo stomaco. A volte tornava a casa,
altre notti restava in ospedale a fianco del papà. Ora non ha i soldi per
cambiare i copertoni alle ruote della sua bicicletta e tanto meno per comprarsi
le scarpe perché quelle che ha ora hanno la suola consumata fino a bucarsi. La
scuola dista troppi kilometri per un paio di infradito di plastica.
Sylvie, dieci anni?! Solleva il papà semi-paralizzato con un gesto esperto ed
elegante degno di un’infermiera di professione. Quanta sofferenza vedono e
vivono i bambini?
Dieudonnè è senza un braccio e senza un fratello gemello, a cui era legatissimo
e che l’aids ha portato via parecchi anni fa ormai. Ora aspetta di riprendersi:
di riprendere la sua memoria, le sue gambe, il suo lavoro. Un incidente in moto
e dieci giorni di coma lasciano il segno. Quando si è risvegliato ha detto solo
due parole: “Dieu merci”. Ha la vita. E una moglie, un bambino e lui stesso con
l’aids. Ma ringrazia. E ripete che la prossima settimana riprenderà a
camminare. Accanto a sé c’è Irma, la moglie, che con la scusa di non lasciarlo
cadere dalla sedia, con un braccio dietro le spalle, lo abbraccia. Per tutto il
tempo che stiamo con loro.
Rita, che adesso di anni ne ha 21, da
piccola nascondeva nel pentolino i pezzetti di carne tra il riso per portarli
al suo papà, moribondo tra i malati di aids. Papà a cui è stata di fianco fino
all’ultimo. Rita che, a dieci anni, si è fatta un viaggio lunghissimo, di oltre
200 kilometri perché qualcuno le ha riferito che la sua mamma era tornata al
villaggio. A nessuno ha mai raccontato come ha percorso tutta quella strada, ma
quando è arrivata alla porta ha bussato. “Chi è?” da dentro; “Cucù”. Così la
chiamava la sua mamma quando era piccola. Rita sta imparando a cucire, già se
la cava con le camicie. Ma soprattutto ha un sorriso che non spiega quello che
i suoi occhi hanno visto.
E poi Colette, Gertrude, Angele, Elisabeth e quelli di cui mi sono dimenticata
i nomi.
Gente impeccabilmente elegante, educata, silenziosa. Che porta a spasso con
ineguagliabile dignità il suo fardello.
venerdì 20 aprile 2012
giovedì 12 aprile 2012
domenica 8 aprile 2012
Quaggiù
Sei
venuto fin quaggiù,
entrando
in questo nostro deserto,
che
sembra senza fine, o Gesù,
qui
dove pensieri e sentimenti
rischiano
di restare prigionieri,
come
angeli caduti,
e hai
vissuto con le fiere
di
questa nostra landa desolata.
Eppure
anche qui il Vangelo risuona,
sicchè
le tue parole prendono forma e luce,
e
rendono capaci di rialzarsi in volo.
Tra
questi macigni consunti dal tempo
e
questa sabbia sconfinata
sembra
di udire ancora
nella
nostra umana sterilità:
<Alzati
in piedi e cammina anche tu!
Il tempo è venuto e con esso il regno di Dio!>
Il tempo è venuto e con esso il regno di Dio!>
giovedì 5 aprile 2012
Nella mia Pasqua
Giovedì Santo, 5
aprile 2012
Se dovessi scegliere
una reliquia della Tua Passione
prenderei proprio quel catino
colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
ad ogni piede cingermi l’asciugatoio
e curvarmi giù in basso,
non alzando mai la testa oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici,
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo,
del drogato, del carcerato, dell’omicida,
di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego.
In silenzio…
finchè tutti abbiano capito,
nel mio, il Tuo Amore.
una reliquia della Tua Passione
prenderei proprio quel catino
colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
ad ogni piede cingermi l’asciugatoio
e curvarmi giù in basso,
non alzando mai la testa oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici,
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo,
del drogato, del carcerato, dell’omicida,
di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego.
In silenzio…
finchè tutti abbiano capito,
nel mio, il Tuo Amore.
Sveglia
puntata per l’una e trenta. Caldo che toglie il fiato e costringe a stendere la
stuoia fuori, sotto un cielo che si fa bianco di nuvole e luna quasi piena. E
si ringrazia Dio anche per questi quaranta gradi di notte: è una meraviglia
avere intorno solo la natura. Terra, cielo e animali che nemmeno la notte
riposano.
Accontentarsi del caffè solubile perché il gas è finito e poi uscire, cercando
di fare meno rumore possibile aprendo il cancello in ferro perché in questa
notte qualsiasi rumore stona.
Fa buio, ma c’è una luce che, nonostante aprile, sembra quella della capanna.
Comunque ci dice che bisogna andare lì. Ed ecco lo spettacolo, questa volta ne
è l’artefice l’uomo, con il suo corpo, la sua preghiera sussurrata,
cantilenata, il canto lieve e le mani delicate.
Siamo intorno a chi ci chiama, a chi ci chiede di stare. Siamo lì e io sono
commossa. E mentre cerco di fare silenzio nel mare di sentimenti che
inaspettatamente mi hanno invaso, ce n’è uno che scavalca tutti gli altri: siamo
davvero tutti figli di uno stesso Padre. Si, ora ne ho la certezza.
E per la seconda volta (qui si contano) ho smesso di sentirmi bianca, pallida
e italiana. Ascolto le loro preghiere, più in samo che in francese e colgo
sempre, ripetuta all’inverosimile, timidamente recitata, con sicurezza
pronunciata una sola parola: barka. Grazie.
Chi in ginocchio, chi sdraiato, chi stanco e appoggiato alle panche, chi seduto
…c’è solo gente che sta ripetendo grazie per quello che è stato loro donato.
Non chiedono nulla a quel Dio che stanno ringraziando.
Come posso non interrogarmi, non mettermi in discussione? Mi chiedo per cosa
ringraziano. Mi è difficile a volte pensare che con loro Dio sia stato veramente
buono. È un pensiero scomodo, che mi turba e mi fa vergognare. Parlano anche di
saper rinunciare, di farsi piccoli. Ma più di così, si può?
Tra tutte quelle parole e quei canti incomprensibili non mi resta che dire il
mio grazie: Grazie Signore, perché sono qui, in mezzo a loro.
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