venerdì 7 settembre 2012

1 2 3 ...settembre


Ultima calebasse di dolo, ultimo to, ultimo giro in moto. Ultime scomode quotidianità che no, non mi dovrebbe dispiacere di lasciare e invece… mi piacerebbe poter prendere l’acqua dal pozzo anche domani e lavare ancora una volta i vestiti a mano.
Ultimi momenti tra quelle quattro mura, ultime passeggiate su quelle strade. Ultime mani, ultimi occhi, ultime voci. Quelle dei bambini che urlano il mio nome, quella stonata di Marie Cecile che canta per noi, quelle che si alzano ad intonare canti indimenticabili. 
Ci sono gli occhi liquidi di Anna e il suo silenzio; c’è la voce di Adeline che chiede “dove avete imparato voi questa semplicità?”; c’è il sorriso tradito dallo sguardo triste di Paulin; ci sono gli occhi di Lazare che non riescono più a guardare a lungo nei miei; c’è la dolcezza di Laeticia mentre mi dà quattro baci e mi affida al Signore; ci sono gli sguardi su di noi mentre camminiamo per le strade di Toma con le valigie e ci sono le persone che si fermano, si girano e per un’ultima volta ancora ci guardano; c’è Jacqueline che ci saluta per l’ultima volta nel suo sgrammaticato italiano; c’è la mia gioia forzata perché “sappiatelo, è stato un onore vivere con voi” e una tristezza che non ci sta più tutta nascosta. C’è una carezza di Emma; c’è il sorriso di Sostene incontrato all’ultimissimo, come quello di Frederique, Ange e Bona: uno dopo l’altro, ancora per un’ultima volta, inaspettati e veri. C’è già anche il fuoco acceso alle sei di mattina, lì al bordo della strada e lei che già è pronta a friggere l’impasto delle frittelle dolci.  
Non so bene cosa sento e non so bene quali sono state le mie ultime parole prima di salire sul car. So che occhi e cuore si sono riempiti di tutto e soprattutto di quello che non si può raccontare.
I miei bagagli pesano  46 kili solo perché tutto questo non ha un peso su quella bilancia all’aeroporto.  

domenica 2 settembre 2012

Fo ...barka!

il nostro saluto alla gente di Toma

Salutarvi oggi ci ricorda il 14 novembre quando abbiamo salutato famiglia e amici in Italia. C’era tanta tristezza e anche tanta paura. Tante domande: come sarà Toma? E le suore che ci ospiteranno? Ci accoglieranno o saremo sole?
È vero, non è stato facile perché le nostre famiglie e i nostri amici sono lontano e qui tutto è così diverso!  Ma col passare dei mesi abbiamo chiamato questi posti casa, abbiamo trovato mamme, fratelli e sorelle e ci siamo sentite sempre meno sole, fino a far fatica a lasciarvi oggi.
Ci sentiamo di dirvi il nostro barka: ai preti, alle suore e alla Comunità Cristiana. 
Un grazie più che speciale ai ragazzi che ci hanno aiutato per le sejour des italiennes. Siete stati così importanti per noi che dobbiamo ringraziavi uno ad uno, quindi: grazie a Lazare, Tertus, Paulin, Prospere, Ange, Chouchou, Adeline, Christelle, Carine,  Emmanuel, Antoine,  Anicet, Teophile, Innocente e a tutti quelli che sono stati con noi.
Grazie al gruppo dei Rennouveau Jeunes perché abbiamo trovato qualcuno con cui pregare e, tra tutti, grazie al berger che ci ha dato sempre una parola di speranza.
Ma non solo, vorremmo ringraziarvi uno ad uno. Grazie a chi ci ha salutato, e chi ci ha aspettato per salutarci; a chi si è preoccupato per la nostra salute e a chi se ne è preso cura; a chi ci ha spolverato la panca in chiesa e a chi ci ha sorriso. Grazie ai tanti che hanno pregato per noi: sappiamo che è grazie a loro se siamo contente di quello che abbiamo vissuto. Grazie perché dalle vostre piccole attenzioni abbiamo imparato la semplicità.
Abbiamo imparato tante cose, soprattutto abbiamo visto che non c’è un solo modo per fare le cose e non è sempre il nostro modo quello migliore per farle. Potremmo stare ore a elencare quello che ci avete insegnato senza saperlo, ma ci limitiamo a qualche esempio veloce: l’impegno dei laici nella Chiesa, il silenzio mentre gli altri parlano, condividere anche il poco che si ha, avere tempo per gli altri, la gratuità del servizio, l’importanza e la gioia del saluto.

Ma soprattutto, quello che ci portiamo a casa è certamente un posto vuoto in cui lasciare spazio a Gesù.
Si è vero: a “Nassara pie” le case, le scuole e gli ospedali sono plus interessantes, i vestiti si lavano con la lavatrice, le strade sono asfaltate e non c’è tutta questa polvere; ma ogni momento è riempito da lavoro e impegni fino a dimenticarsi di trovare tempo e spazio per Dio nelle nostre vite. Qui invece Dio lo abbiamo incontrato dappertutto e soprattutto sui vostri volti e tra le vostre case.
Un missionario più esperto di noi scriveva:  “Abbiamo bisogno di partire per diventare più umani e più cristiani. Perché missione è diventata condivisione e scoperta fatta insieme” alla gente del posto.  Possiamo dunque dire di essere contente di questi dieci mesi perché li abbiamo vissuti tra di voi e con voi.
Domani partiamo, ma la nostra missione non finisce qui, anzi forse inizierà mercoledì: il nostro compito è quello di tornare tra la nostra gente e raccontare, far sapere quanta bellezza abbiamo scoperto in Burkina, a Toma e mettere in pratica tutto quello che abbiamo imparato da voi. Non sarà facile, ma sappiamo bene che Dio non ci lascerà. Affidiamo tutto nelle Sue mani: la nostra partenza, un possibile ritorno e soprattutto vogliamo affidare tutti voi. Sarà grazie alla preghiera che Modena sarà un po’ più vicino a Toma. 
All’inizio abbiamo detto che oggi ci ricorda il 14 novembre: è perchè stiamo salutando voi, che siete diventati la nostra famiglia e i nostri amici qui.
Barka! 

lunedì 27 agosto 2012

In tanti


27 agosto ’12

Abbiamo fatto tutto insieme per più di tre settimane : ci siamo incontrati, abbiamo pensato, organizzato, proposto, pulito le case e fatto la spesa. Ci sembra giusto, allora, lasciare spazio, per una volta, a chi ha speso il suo tempo per aiutarci e accogliere chi è venuto a trovarci.
Dovevano essere dodici, ma effettivamente il numero è aumentato; lasciamo che vi raccontino tre di loro: Tertus, Lazare e Paulin.


< Dal 30 luglio al 17 agosto abbiamo accolto nella nostra diocesi di Dedougou otto giovani italiani, che hanno raggiunto Alice e Teresa, qui dal mese di novembre. È stata una grandissima gioia per noi perché è la prima volta che dei giovani italiani vengono a visitare la nostra parrocchia per una cooperazione tra Modena e Toma. 

Con loro abbiamo fatto diverse cose insieme: abbiamo piantato circa sessanta alberi nel villaggio di Gossina (a circa 35 km da Toma); non possiamo dimenticare la bravura di alcuni tra di loro che hanno lavorato duramente, come Daniele, Andrea e Cecilia; a Gossina abbiamo visitato anche una nuova chiesa in via di costruzione. Abbiamo visitato altri villaggi (Yaba e Koin) e la parrocchia della cattedrale di Dedougou; ci siamo potuti spostare grazie al grande autista – meccanico – ripara tutto Paulin che ci ha accompagnato con la Peugeot 404 bachée della parrocchia. Grazie all’intraprendenza di Francesco e Sara, invece, abbiamo risistemato e messo a nuovo la biblioteca della Citè des Jeunes; un altro giorno siamo stati all’eremo sulla collina dove Filippo, talentuoso maestro del coro, ci ha insegnato i canti in italiano (“Gloria dal basso della terra” e “Alleluia! Dio ha visitato il suo popolo”) per la messa del 12 agosto.  
Per rinforzare ancora di più la nostra relazione, abbiamo organizzato un match di calcio dove abbiamo scoperto un Lazare, grande portiere; Carine, il miglior difensore; Laura P. goleador; dei tifosi in panchina come Laura B. e Christelle; senza dimenticare Alice, che ci ha rinfrescato portandoci acqua potabile alla fine della caldissima partita.
Infine, il 15 agosto, è stata organizzata una sagra dove abbiamo cucinato e venduto le zamané , le gonré, carne di cane e altre nostre specialità insieme alla pizza italiana.
Il gruppo degli italiani ha animato le messe del 12 e del 15 agosto con qualche canto e le decorazioni della chiesa.  
Durante questi giorni vissuti insieme abbiamo cercato di imparare qualche parole nelle rispettive lingue dell’altro; purtroppo il tempo è volato e ci sembra che tre settimane siano volate via, ma sappiamo che è così perché insieme abbiamo condiviso davvero belle esperienze e, come dice un proverbio: “les bons moments ne durent jamais” (“i momenti belli durano poco”).

Noi siamo pronti ad impegnarci affinchè questa nuova amicizia che è nata possa continuare! >

Tertus, Lazare e Paulin. 

Loro otto sono partiti ; noi siamo ancora qui e possiamo sentire questi giovani che ancora ogni giorno parlano di loro nei discorsi, ricordando qualche episodio divertente e ridendo di chi sapeva rispondere solo “voilà” ad ogni cosa. Siamo ancora sorprese dalle energie che sono state messe in moto in parrocchia per accogliere “les italiennes” così come ancora stiamo rielaborando le sensazioni e le nuove consapevolezze che questa visita ha portato a noi due, ancora e sempre italiane ma in una terra straniera da più di nove mesi. Questa esperienza ci ha cambiato e certo (per fortuna) era inevitabile.
Collaborare ci ha confermato quanto siamo diversi e quante altrettanta ricchezza da ciò può nascere. Pazienza, umiltà, ascolto, aperture di cuore, orecchie ed occhi, comprensione, silenzio …quanto siamo capaci, quanto ancora dobbiamo allenarci, quanto siamo ancora orgogliosamente bianche ed italiane, quanta fatica accumulata? Continuiamo ad imparare, siamo qui per questo. Allora con le parole di M. M. Kolbe preghiamo così <Insegnaci Signore “l’umiltà perfetta: accettare le occasioni di disprezzo e di umiliazione prima con pazienza, poi  volentieri, senza difficoltà, alla fine con gioia”>.
Ci serve ancora molto allenamento, ma ora, che siamo arrivate alla fine del nostro stare qui, ci piacerebbe restare ancora per continuare a sentire questa gioia, che ci pare proprio venga dal donarsi.


martedì 26 giugno 2012

Ultimi tempi



Toma, 24 giugno ’12
La terra trema in Italia ed è proprio lì, nella nostra città.
La nostra terra trema e le notizie che ci arrivano tramite mail, i racconti, le foto e quello che percepiamo nelle voci di chi si fa sentire fanno tremare anche noi.
Per qualche giorno non sappiamo più dove vogliamo essere, se qui o nella nostra terra. Ammettiamolo però: non ci succedeva da qualche mese. Certo siamo fortunate: se qui si balla è per gioia o preghiera; se le cose cadono dal tavolo è stato il vento che, soffiando fortissimo, porta nuvole cariche di pioggia sacra.
Sperimentiamo l’impotenza umana e ci sentiamo, allo stesso tempo, vicine e lontanissime alla gente che immaginiamo nelle tende, nelle auto, senza un tetto. E se constatiamo che l’uomo non può arrivare ovunque, le notizie al telegiornale hanno raggiunto Toma e il prete che dall’ambone chiede di pregare per Modena ha seminato domande e solidarietà verso di noi. Non li consola certo sapere che “anche i bianchi hanno i loro problemi”, ma diventa un modo per essere più vicini, forse più fratelli e figli di un solo Padre. Allora iniziano le preghiere per i terremotati: in due davanti alla grotta di Maria, in alcuni riuniti o in tanti alla messa. Ancora ogni giorno qualcuno ci chiede “come stanno da voi?” e ci ripete “beaucoup de courage”. Noi li ringraziamo e quasi ci sembra di rubare tempo prezioso alle loro preghiere: hanno già un carico personale decisamente pesante date le strenue condizioni di vita a cui sono obbligati. Per fortuna intanto su questa terra rossa sono cadute le prime piogge: abbondantissime, violente, supplicate, festeggiate. La vita si sveglia, si nasce ancora una volta: c’è un brulicare di persone messe in moto verso i campi. Uomini, donne, bambini e asini in lunghe file indiane, chi cammina e chi pedala; tutti con la zappetta appoggiata alla spalla. Non mancano i più piccoli, che potranno continuare a dormire beati, legati alle schiene delle mamme che continueranno a coltivare la terra.
Insieme agli uomini al lavoro, si sono moltiplicati in infinite specie irriconoscibili laboriosi animaletti che animano i cortili: formiche, millepiedi, vermiciattoli, cavallette… anch’essi a faticare nella terra che diventa verde, che brilla, che non sembra la stessa di un mese fa, che non sembra più la stessa dopo due ore di pioggia. Mentre tutto si muove, anche i giovani si spostano: tornano ai villaggi o ne approfittano per partire nelle grandi città durante le vacanze. Sono sempre meno; lo si vede alla messa del sabato sera, alla Cité des jeunes dove sulla lavagna c’è sempre la stessa espressione di matematica da due settimane ormai, passeggiando senza incontrare ragazzi nelle divise scolastiche colo kaki. Sono partiti e con loro anche un po’ di quella sana allegria tipica della loro età che ci portavano anche in un semplice saluto.
Le nostre attività non si fermano ma ci rendiamo proprio conto che è la gente a dare senso al nostro stare qui. Se questa consapevolezza lascia un po’ di vuoto nelle nostre giornate, allo stesso tempo ci fa sorridere: non potevamo desiderare di meglio!
Alice e Teresa

sabato 9 giugno 2012

Un piatto di riso


Erano circa le 16 e avevamo fame, tutte e due. E qui non esistono credenze o dispense. Ma era proprio fame da pance vuote: il pranzo era stato misero, questo caldo toglie l’appetito. Cominciamo comunque il nostro lavoro di catalogazione alla biblioteca e …entra Ema, uno dei ragazzi che alloggiano alla Cité des Jeunes, con un piatto di riso e due cucchiai. Riso che ha riempito pancia, cuore e giornata: un altro regalo dei loro. Che non ti danno gli scarti, ma sempre qualcosa di importante che sanno condividere.  

lunedì 28 maggio 2012

Ospitalità e accoglienza: cinque parole


 “Chez moi est chez toi” = “Casa mia è casa tua”
Ce l’hanno detto in due. E qui sono tremendamente seri quando lo dicono. 

Coraggio


“Bisogna avere il coraggio di fare le cose e bisogna avere il coraggio per essere felici.”
Qualcuno mi ha capito davvero e, tutto sommato, non è che siamo così diversi poi.  

Su una panchina


Jacqueline era una suora. Oggi cammina per strada urlando, a volte passeggia nuda al mercato. Ha perso il senno e cerca di sopravvivere con qualche piccolo lavoro di ricamo, quando qualcuno le regala il filo. Reclama spesso sapone e farina, o alle suore o ai preti. Il suo francese è perfetto e il suo portamento la rende degna di una lingua così elegante.
L’altro giorno l’abbiamo incontrata seduta su una panchina e ci ha salutato “Buongiorno signorine”. Non possiamo non avvicinarci a lei: ci racconta che è stata a Roma tre anni, che la sua parrocchia non è lontano da via Monte Napoleone e che vorrebbe i libri di Milano, sullo sport. Ci mostriamo interessate, la ascoltiamo, incorporiamo il suo discorso con tutte quelle tecniche che aiutano un bambino a farsi raccontare. Ripetiamo le sue parole. Insomma, niente di chè. Però l’impressione è che si senta proprio ascoltata.
Così due giorni dopo la troviamo nel cortile, mentre stiamo lavando i piatti della colazione. Era in giro e si è detta “passo a salutare le due signorine”: “è solo un buongiorno il mio”.
Sorride, sorride tanto …e penso che non è solo pazza, ma soprattutto è sola e tanto bella. Anch’io sorrido, sorrido tanto… grazie a lei.
Spero di rincontrarla presto e di avere un sacco di tempo per ascoltare i suoi discorsi che hanno perso il filo e un senso, ma non la memoria e quindi i ricordi.

Mi piace:


Andare al mercato. 
Andare al mercato è una delle cose che più mi piace fare; la maggior parte delle volte non compro nulla. Sono le donne sedute dietro ai banchi in legno o per terra a fianco dei loro sacchi in iuta che mi interessano. Saluti in samo e in moorè: sono divertite e ridono di gusto. Iniziano anche a non alzare più i prezzi delle ciabatte e delle verdure perché siamo nassara.

Mangiare con le mani da uno stesso piatto.
Ci sono meno cose da lavare dopo, ma soprattutto più cose da condividere durante.

Scoprire i legami di parentela tra la gente.
E accorgermi di tutte le somiglianze tra mamme e figli e tra sorelle e fratelli.

Quando qualcuno mi prende per mano.
E mi tiene stretta così mentre cammina.

Quando ci chiamano per nome o dicono “les italiennes”.
Siamo sempre meno le nassara o le bianche.

Fare le cose per gli altri.
Andare a prendere l’acqua al pozzo; stirare montagne di vestiti, a qualsiasi ora, su un tavolo o per terra; allungare un bicchiere; versare l’acqua e servire il cibo;raccogliere una moneta.
Servire gli altri e non per forza (e forse soprattutto) solo quando non sono in grado di fare le stesse cose da soli. 

giovedì 17 maggio 2012

Le strade


Già quando al telegiornale passano le immagini girate in Francia, mi fanno impressione le strade. Grigio, grossi palazzi, anche belli! Le fontane, mamme che spingono il passeggino, papà in giacca e cravatta. Semafori, autobus, piste ciclabili. Anche a Ouaga resto impressionata.
Qui le strade non hanno niente a che fare con questo. Ci pascola di tutto: maiali, pecore, montoni, capre, galline con pulcini, bambini nelle divise scolastiche, bambini scalzi, bambini nudi, ragazze bellissime, ragazze normali, donne stanche, donne mai sole, uomini sempre in compagnia di qualche altro uomo. Poi tutto si fa in strada, ma questo ve l’ho già raccontato.
L’altro giorno, in pieno pomeriggio, mi sono sussurrata “sarà anche questo il mal d’Africa”. In piedi, in mezzo ad una strada: vedevo lontano. E vedevo di tutto: animali, persone, case, biciclette, alberi. C’era tanta aria. E un senso di pace. Non un filo di acqua, ma mi ha ricordato il mare; per fortuna quello in Italia non manca.

Oggi invece la strada l’abbiamo sbagliata. Cercavamo la casa di Kristel, che oggi ha ricevuto il battesimo. Girando nella prima a sinistra, ho fatto in tempo ad accorgermi che non era la strada giusta e, sterzando il manubrio, sono uscita; Teresa era già troppo avanti e così ci siamo urlate “incontriamoci alla prossima!”.
La seconda: nemmeno questa era quella che cercavamo. Ma la sorpresa è stata bella: “Alice!!!”. La mamma di Ismael mi chiama e finalmente imparo dove abita! La cercavo qualche settimana fa, le ero in debito di un grazie. Intanto arriva Teresa, loro ridono per questo nostro incontro che sembra casuale: veniamo da direzioni opposte. Si stringono mani, qualche saluto in samo, sorrisi. Chiediamo dove abita Kristel: prossima, a sinistra. Non ci eravamo sbagliate di molto!
Adeline e Laeticia, mamma e sorella di Kristel, ci accolgono sorridenti. Per la seconda volta pranziamo con ottimo riso e spaghetti che poco hanno da invidiare a quelli italiani… forse la cottura è da migliorare! Adeline ci chiede di noi, delle nostre famiglie, di quanti siamo, quando andremo a vivere da sole. Ci rassicura: quando avrete dei problemi in Italia, chiamatemi! Pregherò per voi.
Risaliamo sulle biciclette. Trovo tre chiamate di un’altra Adeline. Provo a richiamarla ma non c’è rete. Però… la incontriamo sulla strada! “Alice, ti sto chiamando: suona suona suona…suona invano, non rispondi! Volevo invitarvi a bere il dolo qui da me”. “Adeline, eccoci qui!”. Sono le 15.30, riprendiamo la strada del ritorno verso le 18.  

Pedalare e camminare lungo quelle strade, sedermi sulle sedie di bambù, parlare tanto e di tutto, riuscire a capire ma soprattutto a farsi capire, bere dolo dalla calebasse.
Stare con loro. Ecco cosa amo fare.

Sembrava domenica, ma è stato il giovedì più bello della mia vita. 


mercoledì 16 maggio 2012

A sei mesi


Sappiamo quanto costa un paio di infradito, il pane, un sacchetto di acqua, il sapone, i biscotti al sesamo. Riconosciamo un pagne di buona qualità.
Sappiamo prendere l’acqua dal pozzo.
Offriamo un bicchiere d’acqua all’ ospite che arriva.
Abbiamo fatto tredici viaggi in car.
Uccido i ragni con le mani, ma i topi mi fanno piangere.
In samo so: contare fino a 39, l’Ave Maria, salutare e circa altre venti parole.
Siamo sopravvissute al caldo torrido: non ci speravamo più!
Sono arrivate anche le nuvole ed in effetti Erman aveva ragione: sono proprio belle.
Stanno arrivando le piogge e, insieme a loro, le rane.
 
Abbiamo pianto, ma riso di più.

Riguardare fotografie allontana i ricordi.

Sono arrivate le domande, o forse sono solo cambiate le risposte.

Ho poco a che fare con quella che è partita, ma questa era una delle regole del viaggio.

Certe canzoni sembrano scritte apposta per quello che viviamo.

Proprio oggi una chiacchierata con Adeline mi ha fatto dire “ci vogliono bene loro!”

C’è chi si prende cura di noi. A noi piace pensarli amici.

È una delle prime volte che mi sento donna. Ma i giovani parlano di emancipazione femminile. Ed in effetti il gap generazionale si nota.

L’ho capito ancora di più: è tutta questione di possibilità. Adesso provo a convincere loro.

C’è questo pensiero del ritorno che mi fa addormentare tardi e svegliare prima delle campane.

Non è facile, comincio a pensare che non lo sarà mai.
Ma davvero sono felice.
C’è una certa pace nel cuore. 

domenica 13 maggio 2012

Per fortuna ci sono loro

Felicitè e Nadege, le due ragazze “tutto fare” che lavorano qui dove viviamo noi. Che ogni giorno riempiono l’ampolla di acqua, che cucinano pranzi e cene, che alle 5 di mattina iniziano a spazzare e lavare corridoio e cortile; loro due che ti corrono incontro per prenderti le borse e non farti fare fatica, che parlano ognuna la sua lingua e ostentano il francese come noi. Che indossano con orgoglio i nuovi orecchini e la domenica diventano belle, belle come Dio le ha create. Felicitè e Nadege che ci hanno insegnato a fare i nodi ai sacchetti dell’acqua che vendono lungo le strade, che ci salutano con un “ciao”, che incontriamo al mercato e ci aiutano a comprare i pomodori. Loro due che ascoltano i rimproveri a testa bassa, che non si giustificano se hanno sbagliato la consistenza della polenta o se non hanno messo abbastanza potasse nella salsa. Felicitè e Nadege a cui regaliamo manghi di nascosto e che di nascosto ci fanno l’occhiolino dopo l’ennesima fatica. Felicitè che ci vede da lontano, sulla strada del ritorno, ci chiama e correndoci incontro ci porta due ghiaccioli nei suoi sacchettini. Loro due che ci sorridono dicendo "bien arrivèe" quando, stanche e sudate, facciamo ritorno dopo una giornata fuori. Qui sento perché è bello tornare in un posto che è casa. 
Per fortuna abbiamo imparato a prendere l’acqua dal pozzo, così risparmiamo loro una fatica.

venerdì 20 aprile 2012

Storie

A me fa impressione ogni volta, è come se non mi entrasse in testa; eppure non è solo cosa naturale, è anche cosa logica. È normale che ognuno abbia la sua storia, che se la porta addosso, dentro, in tasca o sulla schiena. Ma ogni volta mi lascio sorprendere impreparata quando le storie si raccontano.
In questi ultimi cinque giorni abbiamo molto girato; Dedougou, Nouna, Kwentu, Bobo …con Ivana, missionaria italiana da 34 anni in Burkina Faso.
Di casa in casa, con l’immenso onore di entrare nei cortili e nelle storie della gente incontrata.
Storie incredibili, perché davvero non si può credere che siano vere. Ma soprattutto io faccio fatica a capire come facciano ad andare in giro, al mercato, a scuola, per strada, sulla bicicletta, sorridendo e salutando con quello che si portano dentro.
Ci sono loro, i giovani dei licei e delle università. Loro che pur di permettersi di studiare mangiano gli avanzi delle mense, se avanzano; che dormono in cinque in una stanza che a noi servirebbe come sgabuzzino, per terra, col caldo, il freddo e gli animali. Loro che li trovi chinati sui libri, in piedi o seduti sotto i grandi lampioni degli incroci delle città: luce per studiare che ancora nelle case non arriva.
C’è Thiarry, diciotto anni, madre morta di aids, ha cresciuto un fratellino, ha cucinato per tutta la famiglia, preso l’acqua dal pozzo, è andato tutti i giorni al mercato, intanto sta frequentando le superiori. Poi è stato allontanato da casa dalla seconda moglie di suo padre, ora paralizzato in tutta la sua parte sinistra del corpo. Vive con due cugini e Madeline, una di quelle che dorme in cinque in una stanza per uno. I primi due vogliono cacciarlo da lì. Non può più rivendicare i suoi diritti perché non ha più l’età. E, non si vede, ma è arrabbiato. E si rifiuta di mangiare in casa; allora esce da scuola alle 17 e due ore dopo parte a lavorare fino all’una, per guadagnare 500 franchi, uscire e cercare qualcosa con cui riempirsi lo stomaco. A volte tornava a casa, altre notti restava in ospedale a fianco del papà. Ora non ha i soldi per cambiare i copertoni alle ruote della sua bicicletta e tanto meno per comprarsi le scarpe perché quelle che ha ora hanno la suola consumata fino a bucarsi. La scuola dista troppi kilometri per un paio di infradito di plastica.
Sylvie, dieci anni?! Solleva il papà semi-paralizzato con un gesto esperto ed elegante degno di un’infermiera di professione. Quanta sofferenza vedono e vivono i bambini?
Dieudonnè è senza un braccio e senza un fratello gemello, a cui era legatissimo e che l’aids ha portato via parecchi anni fa ormai. Ora aspetta di riprendersi: di riprendere la sua memoria, le sue gambe, il suo lavoro. Un incidente in moto e dieci giorni di coma lasciano il segno. Quando si è risvegliato ha detto solo due parole: “Dieu merci”. Ha la vita. E una moglie, un bambino e lui stesso con l’aids. Ma ringrazia. E ripete che la prossima settimana riprenderà a camminare. Accanto a sé c’è Irma, la moglie, che con la scusa di non lasciarlo cadere dalla sedia, con un braccio dietro le spalle, lo abbraccia. Per tutto il tempo che stiamo con loro.
Rita, che adesso di anni ne ha 21,  da piccola nascondeva nel pentolino i pezzetti di carne tra il riso per portarli al suo papà, moribondo tra i malati di aids. Papà a cui è stata di fianco fino all’ultimo. Rita che, a dieci anni, si è fatta un viaggio lunghissimo, di oltre 200 kilometri perché qualcuno le ha riferito che la sua mamma era tornata al villaggio. A nessuno ha mai raccontato come ha percorso tutta quella strada, ma quando è arrivata alla porta ha bussato. “Chi è?” da dentro; “Cucù”. Così la chiamava la sua mamma quando era piccola. Rita sta imparando a cucire, già se la cava con le camicie. Ma soprattutto ha un sorriso che non spiega quello che i suoi occhi hanno visto.
E poi Colette, Gertrude, Angele, Elisabeth e quelli di cui mi sono dimenticata i nomi.
Gente impeccabilmente elegante, educata, silenziosa. Che porta a spasso con ineguagliabile dignità il suo fardello. 

domenica 8 aprile 2012

Quaggiù

Sei venuto fin quaggiù,
entrando in questo nostro deserto,
che sembra senza fine, o Gesù,
qui dove pensieri e sentimenti
rischiano di restare prigionieri,
come angeli caduti,
e hai vissuto con le fiere
di questa nostra landa desolata.
Eppure anche qui il Vangelo risuona,
sicchè le tue parole prendono forma e luce,
e rendono capaci di rialzarsi in volo.
Tra questi macigni consunti dal tempo
e questa sabbia sconfinata
sembra di udire ancora
nella nostra umana sterilità:
<Alzati in piedi e cammina anche tu!
Il tempo è venuto e con esso il regno di Dio!>

giovedì 5 aprile 2012

Nella mia Pasqua


Giovedì Santo, 5 aprile 2012

Se dovessi scegliere
una reliquia della Tua Passione
prenderei proprio quel catino
colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
ad ogni piede cingermi l’asciugatoio
e curvarmi giù in basso,
non alzando mai la testa oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici,
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo,
del drogato, del carcerato, dell’omicida,
di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego.
In silenzio…
finchè tutti abbiano capito,
nel mio, il Tuo Amore.




Sveglia puntata per l’una e trenta. Caldo che toglie il fiato e costringe a stendere la stuoia fuori, sotto un cielo che si fa bianco di nuvole e luna quasi piena. E si ringrazia Dio anche per questi quaranta gradi di notte: è una meraviglia avere intorno solo la natura. Terra, cielo e animali che nemmeno la notte riposano. 
Accontentarsi del caffè solubile perché il gas è finito e poi uscire, cercando di fare meno rumore possibile aprendo il cancello in ferro perché in questa notte qualsiasi rumore stona. 
Fa buio, ma c’è una luce che, nonostante aprile, sembra quella della capanna. Comunque ci dice che bisogna andare lì. Ed ecco lo spettacolo, questa volta ne è l’artefice l’uomo, con il suo corpo, la sua preghiera sussurrata, cantilenata, il canto lieve e le mani delicate. 
Siamo intorno a chi ci chiama, a chi ci chiede di stare. Siamo lì e io sono commossa. E mentre cerco di fare silenzio nel mare di sentimenti che inaspettatamente mi hanno invaso, ce n’è uno che scavalca tutti gli altri: siamo davvero tutti figli di uno stesso Padre. Si, ora ne ho la certezza.
E per la seconda volta (qui si contano) ho smesso di sentirmi bianca, pallida e italiana. Ascolto le loro preghiere, più in samo che in francese e colgo sempre, ripetuta all’inverosimile, timidamente recitata, con sicurezza pronunciata una sola parola: barka. Grazie. 
Chi in ginocchio, chi sdraiato, chi stanco e appoggiato alle panche, chi seduto …c’è solo gente che sta ripetendo grazie per quello che è stato loro donato. Non chiedono nulla a quel Dio che stanno ringraziando. 
Come posso non interrogarmi, non mettermi in discussione? Mi chiedo per cosa ringraziano. Mi è difficile a volte pensare che con loro Dio sia stato veramente buono. È un pensiero scomodo, che mi turba e mi fa vergognare. Parlano anche di saper rinunciare, di farsi piccoli. Ma più di così, si può? 
Tra tutte quelle parole e quei canti incomprensibili non mi resta che dire il mio grazie: Grazie Signore, perché sono qui, in mezzo a loro. 

martedì 20 marzo 2012

Un altro regalo

Cercava e cercava nel suo zainetto. Non doveva essere veramente difficile trovarci qualcosa siccome era mezzo vuoto e si capiva che era l’imbarazzo e la timidezza a farla temporeggiare.
Ripeteva “Ho due manghi del mio albero per voi”. Ha dovuto ridirlo ancora un paio di volte perché io ero convinta di capire male quello che stava sussurrando.
Invece ha davvero preso due manghi, piccoli e immaturi, che le riempivano alla perfezione le sue manine.
E ce li ha regalati.

venerdì 16 marzo 2012

Il calore della febbre


Il caldo massacra l’Africa, con la polvere e la siccità che porta; ma se non ci si dorme qualche volta, non si può immaginare che le notti sono ventose e fredde. Si, fredde perché lo sbalzo termico le fa sentire così su questi corpi accaldati dal sole della giornata.
Guardandomi intorno mi viene quasi da dire che a questa gente piace sudare. Bambini con maglioni di lana e goccioline che scivolano dalla fronte; magliette sotto le camicie, pantaloni sotto le gonne.
Invece a me questo caldo non dà tregua, ma il freddo mi ha colto di sorpresa dopo che per una settimana il sonno era diventato una lotta continua nel girare e rigirare il cuscino per trovare la parte più fresca.
Così il freddo della notte mi ha fatto ammalare ed ho scoperto perché si dice “sono raffreddata”. Niente di chè, i nonni direbbero che è il cambio di stagione ed in effetti, ancora una volta, avrebbero ragione.
Quindi febbre, raffreddore, tosse e mal di gola mi hanno costretto a due giorni di riposo e mi hanno permesso di mettere nuovamente alla prova questo popolo.
Teresa che parte da sola per la messa alla mattina, a comprare il pane, due ruote in giro per Toma e non quattro, da sola al Centro.
Alice è a casa.
Ma, uno dopo l’altro, arrivano loro: Anna e Rebecca, Ciriaque, Beatrice, Rosalie. Sorpresa ed anche un po’ in imbarazzo, non so bene sbrigarmela. Sembrano davvero preoccupati, ma sono malesseri sopportabilissimi qui, in mezzo a gente perennemente malata e senza cure. Starnuti e occhi lucidi febbricitanti tradiscono la mia buona salute, ma riesco comunque a rasserenarli con qualche battuta e parole in samo.
Teresa poi torna a casa con una papaya regalatami e qualche disegno da parte dei bimbi.
Mercoledì abbiamo avuto il tempo, usando questa febbre un po’ come scusa, per bere un the alla Citè des Jeunes, proprio qui di fianco a noi. Un the bollente e lungo, preparato, zuccherato, sorseggiato e condiviso dalle 15 alle 19.30 con altri giovani che passavano di lì.
Questa mattina è passato a salutarmi l’abbè Daniel; come ha fatto a saperlo?! “Me l’hanno detto i burkinabè”. Bè, sappiatelo, a me ha fatto sorridere di tenerezza. Perché non è la prima volta che questa gente si preoccupa per noi. Ci dice “Non abbiamo nulla da darvi, allora come possiamo aiutarvi? Possiamo preoccuparci per voi e cercare di rendervi felice facendovi stare bene tra di noi”.
Ma oggi pomeriggio il regalo più bello: Lazare è arrivato con un sacchettino. Dentro quattro biscotti al sesamo. Ieri avevo abbondantemente espresso il desiderio di mangiarli. Se fossi stata in Italia, certo lo avrei abbracciato.

un regalo da Marie Jeanne 


venerdì 9 marzo 2012

Santi i pampers


Abdul Karim ha tre mesi. È il fratellino di Salif e Adama, due gemellini di sei anni. L’ho trovato al centro, sdraiato su un sacco di iuta e un pagne, mentre la sua bella mamma aiutava la cuoca a preparare il pasto per gli altri 57 bambini.
Abdul è cicciottello, porta una braccialetto di rame al polso e una cordicina annodata intorno alla vita a cui è appesa una moneta da 5 franchi. Stava sdraiato per terra e non la smetteva di sgambettare e stringere il pezzo di stoffa sotto di lui con i suoi piccoli pugni. Non ho resistito e sfiderei chiunque a farlo: mi sono chinata ed ho cominciato a parlargli in un italiano per tutti incomprensibile ma in quella lingua universale che ci faceva capire. Sorpresa delle sorprese, Abdul risponde reggendo i ritmi e i toni che do alla nostra interessante conversazione. Scopro che è un bambino sveglio e vivace, allegro e sempre pronto a regalare sorrisi. La sua mamma e le altre donne impegnate in cucina si fermano, prima sorridono poi ridono di quella che sta diventando una vera e propria discussione tra me e lui.
Ha tre mesi, ma sa ridere di gusto. E mentre mi godo quella gioia gratuita che si sta diffondendo mi chiedo se qualcuno, prima di me, si fosse mai fermato a giocare con lui. Ma soprattutto mi chiedo che cosa stiano pensando quelle donne esperte di figli, di me, che mi comporto da bambina davanti ad un bambino. Non è cultura qui giocare coi più piccoli, divertirsi insieme a loro, fermarsi a coccolarli un po’. Intanto mi accorgo chiaramente che queste mamme sono piacevolmente stupite da quello che una creatura così indifesa sa fare.
Il giorno dopo la scena si ripete: dopo averlo allattato la sua mamma mi cerca per lasciarmelo tra le braccia e così me lo porto a passeggio e non perdo occasione per strappargli una risata.
Allora decido che posso smetterla di pensare che cosa stiano pensando loro di me mentre faccio quello che qui non si fa. Con la santa leggerezza che qualcuno mi ha consigliato di adottare pochi giorni fa, continuo a farmi lunghe chiacchierate con Abdul che non si stanca mai.
Qui tutto sta diventando più familiare ed allo stesso tempo diverso. Un paradosso in cui trovare un posto comodo in cui starsene a vivere. Più si conosce questa gente, i loro modi e la loro affascinante cultura, più ci si accorge delle profonde differenze che dettano i nostri stili di vita. Raramente dimentico di essere bianca ma piano piano divento sempre più me stessa, decidendo che “si Alice, va bene quello che stai facendo” quando ho ben visto e calcolato che i miei atteggiamenti inesperti non offendono gli altri.
Allora anche oggi, ancora una volta, mi sono fatta quattro risate con Abdul che deve essersi veramente tanto divertito, perché a forza di ridere gli è scappata la pipì. Dopo un primo momento in cui fissavo i miei pantaloni bagnati, ho messo anche questa sul ridere. Ma non dovevo farlo, perché tempo cinque minuti, me l’ha di nuovo fatta addosso. 

sabato 25 febbraio 2012

Bonjour gam!


Immaginate la chiesa parrocchiale nella penombra mattutina. Tra le sagome illuminate dai neon che formano le quattro braccia della croce, scorgerete sulla destra una figura che ondeggia da una parte all’altra, talvolta con le mani alzate, al ritmo dei canti in Samo. Marie Cecile, occhi socchiusi e sorriso sdentato, veste un abito stracciato, rigido per la sporcizia. Cammina storta,  trascinando il peso della sua malattia e dell’emarginazione. Per tutti lei è matta. La potete facilmente incontrare a messa mentre risponde a voce alta, secondo i suoi tempi,  e al momento della pace affrettarsi per dare il segno della pace alle sue bianche, le sue ‘gam’. Marie Cecile non ha nulla, solo quel vestito e il rosario di plastica rosa al collo. Sul sagrato o accanto all’entrata dell’ufficio dell’abbè Enrique canta a squarciagola i canti della messa e benedice in Samo. Talvolta entra nel cortile delle suore e, dopo qualche metro, si ferma davanti alla statua della Madonna per cantare l’Ave Maria. Non chiede pane, acqua, soldi, viene solo per salutare chi non l’ha abbandonata. Marie Cecile è sola ma è sicura che Dio non l’abbandona. Per questo, tra tanti posti che potrebbe scegliere per dormire all’addiaccio, sceglie di appoggiarsi al cancello della chiesa per fare compagnia al suo Signore, Colui che non l’ha mai abbandonata. Piccola Marie Cecile, a te appartiene il regno dei cieli! 
Teresa

sabato 18 febbraio 2012

“Sono giorni che va di fretta la fiducia, la lealtà e pure il destino”


Se avessi talento, pazienza e tempo a sufficienza ci sarebbe da scriverci un libro. Si perché di gente ne abbiamo conosciuta, tanti pensieri e impressioni sono stati scambiati, sorrisi regalati e tanta positività intascata. La partenza era un misto di curiosità, perplessità e speranza. Dopo l’ultimo viaggio a Ouaga, era naturale preoccuparsi nuovamente a come sopravvivere nel caos disordinato della capitale. 

La stima all’interno del petit car che ci ha portato fino a Ouaga ammontava un’ottantina circa di passeggeri, tra cui uomini, donne e bambini e due polli dalle zampe legate; sopra al veicolo, tenuti ben saldi da corde infinitamente lunghe: borsoni, bacinelle, sacchi di riso, farina, fagioli, undici capre, due motorini, una bicicletta e una cesta con circa una quindicina di polli. Insomma, non eravamo da sole! Così il viaggio alla volta della grande città è cominciato sotto il sole delle 8.40, con un ritardo che di norma altera notevolmente i pendolari di Trenitalia, me in primis.
Penso che sarebbe saltato fuori un bel fumetto se qualcuno su quel pullman insieme a noi si fosse messo a disegnare le nostre facce: un susseguirsi di occhi sgranati, bocche spalancate e poi gomitate e sguardi d’intesa quando… un uomo, che evidentemente stava ancora legando i bagagli, scende dal tettuccio del pullman e con agilità e destrezza di chi conosce bene il suo mestiere, rientra dalla porta …il tutto mentre sfrecciamo sulla strada tutta polvere e buche; un passeggero dal fondo del petit car, al momento di scendere, prende la strada più breve, come qualsiasi uomo con un po’ di senso farebbe: esce dal finestrino. Anche il ragazzo che passa a controllare i biglietti sceglie la via più corta.
Poi una donna che chiede di scendere e l’autista che non si ferma, continua a schiacciare sull’acceleratore ancora per un paio di kilometri. Smettiamo di capire cosa sta succedendo quando l’atmosfera si surriscalda e tutti cominciano a parlare, con toni decisamente alti, nelle loro lingue: samo? Morè? Djula? Sentiamo solamente qualche parola in francese che dice Elle est ta petit soeur, tu fais du mail a ta petit sœur.”  Pourquoi tu te n’arretes pas ? La femme n’a pas le droit de descendre?”  e capiamo che tutti quegli uomini che hanno iniziato a gridare e inveire contro l’autista stanno prendendo le difese della donna. Posizione che mi conforta avendo ormai conosciuto quale è il posto e l’onore riservato a chi indossa la gonna qui.
Arrivate a destinazione incontriamo, uno dopo l’altro, come se qualcuno ce li avesse preparati nei posti giusti e al momento giusto, tanti piccoli angeli custodi che, senza che probabilmente mai lo sapranno, hanno trasformato quella che doveva essere avventurosa sopravvivenza in un esempio indimenticabile di accoglienza.

Il the delle cinque

Ora ripenso…
…al pomeriggio di giovedì: come Helen che perde la metro e prende un taxi per rincasare in Sliding doors, così noi abbiamo aspettato la nostra metropolitana in ritardo di un paio d’ore sulla nostra occidentalissima tabella di marcia e, in quelle due ore, abbiamo conosciuto una decina di ragazzi provenienti da Togo, Benin, Niger, Guinea Conakry e ci siamo ritrovate a bere the caldo insieme a loro, seduti in cerchio e semplicemente a chiacchierare, a chiedere chi sei, cosa fai, cosa ne pensi di quello che hai visto fino ad oggi  e a farci spiegare tanti comportamenti e situazioni a cui ancora non sappiamo dare un senso o una spiegazione.
…al bicchierino di the, piccolo come quello degli amari, riempito una volta per ciascuno e che passava di mano in mano e di bocca in bocca.
…alla voce del muezzin che esce dagli altoparlanti delle moschee che riempiono la capitale e richiama i ragazzi alla preghiera che, uno dopo l’altro, si alzano e si allontanano, dandosi il cambio per non lasciarci sole.

Senah

Senah, uno di quelli che ti fa pensare che Dio deve averci messo qualche secondo in più degli altri a crearlo, bello e perfetto com’è. È venuto a salutarci alla porta la prima sera; venerdì è passato ancora una volta per darci la buonanotte. Siccome mi ricordavo bene l’intensità della sua stretta di mano, la seconda volta non mi sono fatta trovare impreparata e ho risposto al suo saluto con altrettanta forza. Questo deve averlo sorpreso perché ha tenuto stretto ancora un po’ la mia mano e mi ha regalato uno dei sorrisi più belli mai visti guardandomi dritto dritto negli occhi.

Resta da perfezionare

Giovedì sera l’abbe Prosper ci ha portato a mangiare il pesce alla griglia… rigorosamente con le mani! Cotto sul bordo della strada, non aveva nulla da invidiare al pesce cucinato nei ristoranti in riva al mare. Ho dato sfoggio di ciò che mi avevano insegnato in Sierra: sembrano gesti grossolani e fatti a caso, ma in realtà dietro vi è nascosta una tecnica per nulla naturale a noi che il cibo lo sfioriamo con coltello e forchetta. Finito il sopra e il sotto del pesce,  è stato il momento della testa: me la sono mangiata, con sforzo notevole e a occhi chiusi. Ma qui imparo che, davvero, non si butta via niente. Grande consenso ha avuto la leccata finale alla mano; questa gente sarebbe perfetta per i fonzies.
Resta da specificare che la tecnica è ancora da affinare: un altro motivo per essere felice di avere davanti ancora nove mesi.

Occasione trovata

È qualche settimana che abbiamo deciso di andare a Sabou, un villaggio decisamente non troppo vicino e nemmeno di strada per i petit car che spostano gente e cose ogni giorno e più volte al giorno. Il problema è dunque il come arrivarci. E così, venerdì, abbiamo incontrato lungo la stradina che ci portava alla camera l’abbe Benjamain di Koudougou (villaggio distante una quarantina di kilometri da Sabou) e, dopo poche chiacchiere, ci ha lasciato il suo numero, dicendosi disponibile ad accompagnarci fino a Sabou non appena abbiamo tempo. Quando si cerca un passaggio, qui dicono “Je cherche un’ occasione”. Noi nemmeno l’abbiamo cercata che qualcuno già ce l’aveva offerta.

Occhi dentro occhi

Anche lui l’abbiamo conosciuto per caso, perché era lì ed anche noi ci siamo ritrovate nello stesso posto. L’abbe Benoit parla e sa ascoltare. Parla e ascolta non solo con la bocca e con le orecchie; è uno di quelli che ha il dono di ascoltarti con gli occhi e secondo me gli occhi hanno un rapporto privilegiato col cuore. Finalmente, vuoi che il francese migliora sempre più, vuoi che ero seduta al suo fianco, ho raccontato a qualcuno perché oggi mi trovo su questa terra. Ora mi resta un dubbio: avrà capito cosa è riuscito a fare dal mio timido merci beaucoup?

C’era un cammello parcheggiato a bordo della strada.

Un’ immagine tipica quando si vuole generalizzare sull’ Africa, inusuale del Burkina Faso. Dal petit car l’ho visto seduto lì, davanti ai banchetti in cui si vende un po’ di tutto. Ho reagito come fanno i bambini quando passano davanti ad un negozio di caramelle, o come faccio io davanti alla vetrina della pasticceria: sussulto, mi giro, spalanco la bocca e dico “nooooooooooooo”, dalla O un po’ aspirata perché è meraviglia pura. Ma perché un cammello in città? Ben presto mi saltano alla mente le immagini viste al telegiornale l’altra sera: il Mali è in rivolta, i Tuaregh si spostano, escono e si fanno profughi in una terra poverissima, dove comunque è assicurato qualcosa di meglio: la vita. Sono arrivati anche in Burkina Faso; attraversano i deserti e sono a migliaia. Undici li abbiamo anche caricati sul pulmino del viaggio di ritorno. Non avevano nulla se non una stuoia, i loro letti, e i più fortunati zainetti vuoti e sgualciti. Ognuno si è stretto ancora un po’ di più al suo vicino e si è fatto posto per ciascuno. Quando sono scesi a Reo, dopo due ore, hanno attraversato la strada, si sono girati e, guardandoci negli occhi, hanno sorriso a noi che ancora non avevamo raggiunto la destinazione. Occhi pieni di chi vive un lutto o una nostalgia di qualcosa che fuori non c’è più ma che dentro ti riempie.

Siamo tornate a Toma. Ma come si fa spiegare a questa gente cosa abbiamo vissuto quando tutto questo per loro è normalità? È come dire che sei stato al mare e hai fatto il bagno: qualcosa di speciale?!

Pane burro e marmellata

La sveglia che suona ci porta, di buon’ora, in una stanza trasformata in cappella. Alla messa delle sei ci siamo noi due e tre preti. Ci sentiamo quasi privilegiate, non capita spesso! È l’ultimo dei nostri tre giorni di permanenza in capitale; più tardi saliremo sul pulmino, unico mezzo di trasporto locale che ci riporterà a Toma dopo cinque ore di strada, piste e polvere. Finita la messa uno dei tre, l’abbe Benoit, ci invita a far colazione con loro, i sacerdoti che studiano all’università di Ouaga. Così ci ritroviamo a spalmare burro e marmellata su panini che non mancano per ospiti inaspettati. Sarebbe bastato il buon caffè, rigorosamente preparato per le italiane, a risvegliarci; ma la loro simpatia, le continue battute tra di loro, mossì e samo (dove l’appartenenza ad un’etnia è scherzo e risate e per nulla rivalità), le domande per conoscerci e sapere di noi, le tante spiegazioni sulla loro cultura, i bisogni del popolo e sul come intervenire con rispetto e delicatezza riempiono le prime ore di questo sabato, che da subito si rivela non essere per nulla noioso. Per arricchire la già apprezzata accoglienza, l’abbe Benoit ci accompagna prima ad acquistare i biglietti per il viaggio e, nella tarda mattinata, ci svela, con una frase che forse non si è nemmeno accorto di aver pronunciato, cos’è la vera disponibilità: alla nostra perplessità di essere un disturbo per lui, semplicemente replica “Ho i miei programmi, ma trovo sempre un po’ di tempo per aiutare le mie petites soeurs”. Alle undici e trenta saliamo ancora una volta sulla sua auto che, ancora tra tante chiacchiere, ci porta alla stazione per il viaggio alla volta di Toma.  Un altro esempio di accoglienza verso di noi che, ancora una volta, non si è fermato ad un bicchiere di acqua ed allo scambio di nomi. 

martedì 14 febbraio 2012

Una risata


14 febbraio 2012


Non vi ho mai raccontato che:

una volta ho passato un’ oretta seduta a fianco di Francesca a leggere i racconti del suo libro di scuola: uno lo leggeva lei, l’altro io;
ho caricato Ismael, Adama, Aicha sul portapacchi della bicicletta, non tutti insieme naturalmente;
una mattina abbiamo incontrato una ragazza, deve essergli piaciuto che anch’io, come lei, mi chiamassi Alice, perché è andata a comprare un sacchettino di succo e me l’ha regalato;
ho visto una mamma giocare col suo bambino;
ho visto una mamma imboccare il suo bambino;
ho accompagnato la mano di Salif con la mia, mentre stava imparando a scrivere la lettera v;
ho cullato Severine, ammalata e in dormiveglia, cantandole sottovoce una ninna nanna;
ho comprato dei fogli in cartoleria e in cambio mi hanno regalato un sacchettino di arachidi;
Charlotte ci ha accolto a casa sua, ci ha fatto preparare il to insieme a lei ed alla sua famiglia e ce ne ha regalato una pentola per la cena.

Approfitto per raccontarvelo oggi perché anche qui è arrivato il tormentone di san Valentino ed io me ne ero pure scordata; penso che, se proprio proprio non lo sono, ci assomiglino molto all’amore queste cose. 

lunedì 13 febbraio 2012

Niente in cambio


Eravamo di fretta, probabilmente per la prima volta da quando siamo qui. Eravamo di fretta e pedalavamo velocissime sulla strada del ritorno, tutta in salita; la fatica si faceva sentire nel fiato corto e nei muscoli che imploravano di fermarci. Qualcuno li ha ascoltati e così… ci siamo fermate davanti ad una mano insistente che ci salutava e un ripetuto bonsoir, insolito da parte di un uomo. Nel venire verso di noi ci dice “J’ai une commissione pour vous”: eccolo, abbiamo pensato, figuriamoci se non vuole qualcosa. Si perché qui tutti chiedono qualcosa ai bianchi: i bambini le caramelle, altri i vestiti, chi direttamente qualche soldo e chi cibo. Mettici che la siccità causata dalle poche piogge della stagione passata sta costringendo la gente ad una povertà davvero elevata; gente impreparata davanti ai piatti vuoti: può risparmiare chi ha qualcosa che avanza. Mettici anche che la storia di un uomo si fa sulla storia dell’umanità e così, il bianco è più ricco e matematicamente può donare ciò che ha. Allora abbiamo aspettato che lui si avvicinasse a noi e ci siamo scambiati i più educati saluti stringendoci le mani. Eravamo in attesa, un po’ in imbarazzo e un po’ sulle nostre, sperando di riuscire a cavarcela anche questa volta. Invece, sorpresa! Ci ha fermato perché ci vede passare ogni giorno; lavora nei nuovi edifici dediti all’educazione all’alfabetizzazione e si è detto “ogni giorno passano di qua, ma chi sono?”. Semplicemente desiderava conoscerci. Dopo avergli promesso che nei prossimi giorni, strada facendo, ci fermeremo a salutarlo, siamo risalite sui pedali e il corpo non era più stanco, forse perché la testa era occupata a pensare a quel ragazzo, al primo pensiero nato,  all’ennesimo pregiudizio che non ho saputo frenare, alla gioia misto stupore di cui quell’ incontro mi aveva riempito.
Ripensandoci stasera mi vengono in mente tutte le persone che per giorni e giorni, mesi e anni ho incontrato quotidianamente sulla mia strada: chi in stazione e chi sul treno; i vicini di ombrellone ma anche quelli di casa; nella classe di fianco, la commessa del Conad. Tutti perfetti sconosciuti. E poi penso a come si debbono sentire gli stranieri a casa nostra, quando nessuno rivolge loro un trattamento speciale, spesso nemmeno un trattamento; penso soprattutto a quegli stranieri che per cultura, nella loro terra, considerano l’ospite sacro. E poi mi chiedo:  è proprio sacralità protendere verso l’istinto più umano che umano non si può, ovvero il conoscere l’altro? Ho da pensarci su. 

In cucina di nuovo lei


Oggi è tornata Anna al lavoro, dopo due settimane. Quando ci siamo viste, ha spalancato le braccia ed è venuta verso di me; in quei pochissimi secondi ho capito che potevo lasciarmi abbracciare, che Anna stava proprio per farlo. Allora anch’io ho aperto le mie braccia e ci siamo salutate così, come si fa con qualcuno che finalmente rivedi perché si è sentita la sua assenza e davvero sei felice che sia ritornato. 
Un altro abbraccio, qui si contano …siamo a due! 

domenica 12 febbraio 2012

Ancora e sempre lui


Stamattina è tornato a trovarmi Alansandre, dopo la messa, vestito di tutto punto: pantaloncini e camicia col pagne di Natale. Tra le chiacchiere gli chiedo “sei venuto da solo, dove sono i tuoi amici?”
“I miei amici? Quali?”
“Mah, avrai degli amici…”
“Sei tu una mia amica”
L’ho abbracciato e l’ho visto: ha sorriso per quel gesto.  Fa il bulletto, ma è un gran tenerone. E per fortuna ha solo undici anni, perchè un po' mi fa innamorare e, altrimenti, sarebbe diventata una questione seria.  

sabato 11 febbraio 2012

Dimitri


Dimitri avrà dodici anni, penso. Non è tra quelli che se non c’è si sente; non dà troppa confidenza, non ti cerca. Riesco a ricordarmi di lui grazie a quella volta che abbiamo medicato la sua mano dalle dita gonfie.
Poi ieri mi ha regalato una busta, sopra c’era scritto “j’espeur que vous sauroit contentes d’avoir ce lettre”; dentro il disegno di una bicicletta.
Sotto al mio letto, a casa, c’è una scatola con un centinaio di disegni che in tanti anni mi hanno regalato tanti bambini. È cosa normale per chi ha quotidianamente a che fare con loro.
Ma questo regalo mi ha emozionato tantissimo, forse perché inaspettato, forse perché davvero gratuito.
Quando poi l’ho ringraziato, mentre gli versavo l’acqua sulle mani per lavarle prima del pranzo, non ha detto nulla, ma so per certo che è arrossito …e ancora una volta ho pensato che sono fortunati loro, che possono arrossire senza che nessuno se ne accorga. 

martedì 7 febbraio 2012

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Marie Jeanne e Sylvie, insieme fanno 13 anni: due grandi maestre.


lunedì 6 febbraio 2012

Polvere ovunque


Quando stamattina ho aperto la porta della camera ho fatto fatica a respirare. Non era solo lo stupore a fare corto il fiato: una luce rossa opaca investiva tutto, a partire dal cielo, poi le case, le persone, l’aria. Il vento aveva rumorosamente soffiato tutta notte rendendo difficile il mio sonno, ma mai mi sarei aspettata uno spettacolo di nebbia colorata al risveglio. Ossigeno pesante, pesantissimo! Ossigeno fatto di polvere che entra negli occhi, nella gola e tra le trame del cotone dei pantaloni e delle magliette.
L’altra sorpresa che mi ha fatto impugnare la macchina fotografica l’abbiamo trovata lungo la strada: strada deserta, nessuno in giro. Le donne non pestavano il miglio, i bambini non giocavano nei cortili, gli uomini non erano seduti sulle loro sedie di bambù. Solo gli animali non si sono arresi a questa natura che nuovamente sorprende tutti.
Inevitabilmente ho pensato alla mia casa, al mio Paese, in questi giorni. Bloccato sotto la neve, al gelo. Oggi effettivamente nemmeno qui si suda, ma il freddo naturalmente non è paragonabile. Mi emoziona scoprire che l’uomo sa ancora fare un passo indietro per lasciare spazio alle sorprese della natura, che ancora sa modificare le sue abitudini seguendo i capricci di qualcuno di più potente. Qui l’hanno saputo fare senza lamentela alcuna, accettando di sospendere il non indispensabile per un giorno; l’hanno saputo fare con semplicità e naturalezza, addirittura senza stupore.
Spero di non dimenticare questa lezione silenziosa che qui nessuno sa di avermi dato quando, con la neve del 2013, mi troverò costretta a starmene chiusa in casa e mi annoierò a morte.   


giovedì 2 febbraio 2012

Voilà ici notre maison



Francesca è quella che mia zia chiamerebbe “una spippola”.
Occhi grandi, fa la smorfiosetta, ma se inizi a giocare prima tu,  non si tira indietro.
Oggi l’ho salutata verso l’una uscendo dal Centro, quando mi ha chiesto “Dove vai?”
“A casa, a mangiare. Ci vediamo domani”. Col suo tono tipicamente serio, replica: “Allora mangi qui”.
Ah! Il mio pessimo francese! “No Francesca, oggi vado a casa a mangiare!”. E qui mi sono sciolta per la sua dolcezza dura, bambina costretta a crescere in fretta come tante altre, quando, sempre seria, mi dice “Si ho capito, dici di andare a mangiare a casa, ma la nostra casa è questa”

mercoledì 1 febbraio 2012

25 gennaio - 1 febbraio 2012


"Ci sono giorni in cui ti senti in esilio,in cui nulla o nessuno riesce a farti tornare in patria, giorni che scivolano via dal calendario,inutili e smarriti. Ci sono giorni di sole asciutto e di terrazzi nitidi, in cui l’orizzonte tra mare e cielo è netto come in un disegno,giorni che tutti, tranne qualche pazzo felice, non sanno neanche vedere correndo a rinchiudersi tra quattro pareti.Ci sono giorni che scappano via e afferri solo alla fine, quando sei stanco, non sai più che farne e getti via come un cibo scaduto. Ci sono i giorni che diventano celebri, quelli degli incontri che scuotono la vita, oppure quelli che lasciano il segno per un’emozione o una scoperta, per una solitudine o per una compagnia. Ci sono i giorni-vigilia, dei conti alla rovescia, delle sfide attese e temute, i giorni che credi importanti e che invece, subito dopo, sono già appassiti. Ci sono i giorni-fotocopia, quelli che potresti scambiare tra loro, uscendo da uno per entrare nell’altro senza accorgertene.Ci sono i giorni-civetta, che ti sorridono da lontano, che ti tentano e ti fanno sperare, ma poi non si presentano all’appuntamento.Ci sono giorni di altri che una volta erano anche i tuoi e che adesso non sono più nel tuo calendario, giorni che non ritornano. Ci sono giorni burrasca, che ti sorprendono al largo mentre stai facendo le solite cose e devi pregare per riuscire a tornare.Ci sono i giorni più duri, bui anche a mezzogiorno, degli strappi improvvisi, quelli dei congedi definitivi, delle cose che non puoi cambiare anche se vorresti, i giorni in cui paghi tutto e con gli interessi, quelli in cui una fitta che avevi dimenticato torna a farsi sentire.Ci sono i giorni che si sciolgono al sole: sono belli al mattino, ma poi non accade nulla. Ci sono i giorni-destino, in cui tutto ti accade e tu non hai scelto, i giorni che decidono anche per quelli successivi senza averli consultati. Ci sono i giorni tagliati in due, quelli in cui devi strapparti via mentre vorresti rimanere oppure riesci a passare tra le sbarre e sei libero all’aperto. Ci sono i giorni in cui voli leggero ad alta quota e quelli in cui anche camminare stanca, giorni da giovani e giorni da vecchi. Ci sono i giorni degli oroscopi, enigmi ed amuleti, in cui tutto risuona e tutto allude, i giorni esoterici. Ci sono giorni con le mani sudate, di attese impotenti dietro porte chiuse, di esami e responsi, i giorni nelle mani di altri e talvolta in quelle di Dio. Ci sono i giorni in cui lavori tanto, ma nessuno se ne accorge e quelli in cui tutti lodano il niente che hai fatto. Ci sono i giorni in cui ritrovi un’amicizia, conquisti una fiducia e quelli in cui la perdi; giorni in cui riesci a curare e guarire, quelli in cui ti sai soltanto ammalare. Ci sono i giorni in cui ti piaci e ti porti in giro con soddisfazione e quelli in cui ti nascondi e non vorresti mai essere in tua compagnia. Ci sono i giorni servili, quelli che preparano gli altri giorni, giorni che sono solo gradini, e i giorni-signori, quelli un pò superbi che sono lì solo per comandare le storie e dirigere le orchestre. Ci sono i giorni che guardi dall’inizio e quelli che guardi dalla fine, quelli che si fanno pregare e quelli che ti pregano,i giorni arrivati presto e quelli arrivati tardi. Ci sono i giorni di mare mosso in cui, se sei saggio, ti metti al riparo e quelli di brezza leggera in cui l’aria è una carezza e devi lasciarti andare. Ci sono i giorni di storia, con date, battaglie e racconti e quelli di geografia in cui il tempo scompare e ci sono solo spazi, rocce e insenature. Ci sono i giorni eremiti, in cui lasci tutto alle spalle e diventi una salita e un silenzio, e i giorni carnevale, quelli in cui vorresti sempre toccare ed essere toccato.Ci sono i giorni in cui pensi ai giorni e quelli in cui togli la spina al pensiero.C’è un giorno, un solo giorno in cui ti accorgi che la vita è una successione di giorni diversi, una collezione di fotografie,che lascerai ad altri,nella speranza che ne conservino qualcuna"
F. Cassano

domenica 22 gennaio 2012

La natura impazzisce


Sembrava la fine del mondo. Sembrava che tutto stesse cadendo a pezzi, uno sull’altro, con il suo solito tempo scandito. Erano le 2.45, il dormiveglia non mi ha fatto realizzare cosa stesse succedendo. Ad un certo punto mi sono stretta forte la testa tra le mani, magari era un sogno da cui faticavo a svegliarmi; o magari il tetto sarebbe crollato su di me. Per istinto, e un po’ da film , mi sono infilata con la testa sotto le coperte, convinta forse di potermi salvare. Mi ha aiutato il ricordo della Sierra: era pioggia. Acqua grondante da un cielo nero di estate. Acqua inattesa, acqua fuori stagione. Ma non ne scendevano gocce, arrivava giù a secchiate. Ha sempre esercitato un forte fascino su di me la pioggia, forse un po’ meno negli ultimi anni quando i portici di Bologna bagnati si trasformavano in piste di ghiaccio per quanto fosse impossibile starci in piedi; ma stanotte è stato terrore puro. Una pioggia di quindici minuti che ha svegliato il villaggio intero, si perché in realtà quello che è giusto raccontare al resto del mondo è che ora sono le 3.26 e fuori da questi muri i tam tam stanno suonando, le donne cantando e ogni sorta d’animale dice la sua. Intanto per l’ennesima volta non capisco ed allora oso interpretare: acqua come benedizione, linfa per questa terra crepata dal sole. Certo la musica è musica di festa.
Così, anche questa notte, l’Africa si fa maestra di accettazione, di pioggia come lo sa fare con la morte.
Ora ha smesso, ora me ne torno a dormire, anche se vorrei trovare il coraggio di aprire la porta e scoprire il colore del fango; torno a dormire con due domande:
-          come fa questa gente sempre infreddolita a sopportare quest’aria gelida che sta salendo dalla terra e entrando dalle finestre?
-          è successo qualcos’ altro di straordinario stanotte, in qualche parte nel mondo?

P.S.: i bambini al Centro oggi erano stanchi: chi non ha dormito per la paura, chi per il rumore dell’acqua su questi tetti di lamiera, chi per il freddo e chi… è uscito a danzare sotto la pioggia. 

sabato 21 gennaio 2012

Cammineremo sempre in compagnia


   
C’è da attraversare una buona fetta di villaggio e le strade per raggiungere la nostra meta sono infinite. Scegliamo di prenderne di nuove, di seguire i passi esperti dei bambini, di non avere percorsi prestabiliti ma accettare anche di sbagliare il tragitto, tanto qualcuno che ci rimette su quello giusto sempre lo troveremo.
Il nostro cammino non è fatto solo di piedi che si muovono, ma è soprattutto fatto da bambini che scendendo dalla bicicletta si precipitano verso di noi per stringerci la mano e ripartire; è fatto da manine che sventolano e voci simpatiche che ci salutano nella nostra lingua: “Alice, Thérése… ciao!”. E lungo la strada incontriamo le donne: al pozzo per riempire i secchi, all’ombra di un albero per pestare il miglio con il mortaio che, dal ritmo che ne esce, sembra un tamburo. Donne che allattano, donne che pettinano altre donne, donne che sudano, donne che cucinano, donne che passeggiano con ceste indescrivibilmente grandi sopra le loro teste. Quasi come fosse un obbligo vivere all’aperto, ma è facile immaginare il perché: le case sono piccole, soffocanti, buie.
Poi c’è lui, il solito signore con la sua camicia color kaki, seduto fuori dalla sua abitazione e che non manca mai di alzare lentamente le sue mani e stringerle insieme, segno di saluto per noi. Tutti ci salutano, alcuni ci ringraziano anche e ancora non abbiamo capito bene il perché. Sorridono di gratitudine quando rispondiamo ai saluti nella loro lingua, il samo, piacevolmente stupiti da questo piccolo passo che ci avvicina un po’ alla loro cultura ancora così lontana, affascinante e misteriosa per noi. Sono due giorni che, sulla strada del ritorno, non incontriamo più l’anziana signora seduta sulla sedia di bambù. Il semplice fatto di essercene accorte ci fa capire che il nostro stare qui è camminare, conoscere e riconoscere, incontrare coloro che sono su queste stesse strade di polvere rossa. Quando il saluto di qualcuno non c’è, ci si volta per cercarlo e se non lo si trova, sentiamo che non può sostituirlo quello di un’altra persona. Questa sta diventando semplice quotidianità, la quotidianità di incontrare persone a noi sempre più familiari. Siamo convinte che, fosse anche tra parecchi mesi, arriveremo a chiamare questo posto casa.
Alice e Teresa



“Se a scendere c’è una giovane donna con bambini, assisteremo a una scena piena di grazia e di destrezza. Prima di tutto la donna si lega il bambino sulla schiena con il fazzoletto di cotone, si accuccia e appoggia sulla testa l’immancabile ciotola o catinella con cibo e altre mercanzie, poi si raddrizza, si bilancia, cerca l’equilibrio compiendo con il corpo un movimento simile a quello di un funambolo che posa il primo passo su una corda tesa, quindi afferra con la sinistra la stuoia intrecciata, che le serve da letto, e con la destra la mano dell’altro bambino, dopo di che avanzando con passo uguale e misurato imboccano il sentiero nella foresta, che li porta verso un mondo che non conosco, e che forse, non riuscirò mai a capire”.
Da Ebano, di R. Kapuscinski

venerdì 20 gennaio 2012

sabato 14 gennaio 2012

La sua mamma


Mi chiama, mi chiama un numero infinite di volte. Ripete il  mio nome a raffica: Alice Alice Alice, alla francese naturalmente. Lo dice senza stancarsi, con un ritmo perfetto quando vuole attirare la mia attenzione, a scadenze regolarissime quando lo ripete da dietro il muro della camera. Alice Alice Alice. C’è da perderci la pazienza, ma poi non ci si riesce. Sfiderei anche il più innervosito al mondo: non ci si riesce. Perché poi Alansandre ha due occhi che guardano dentro le cose, ci scavano nei miei. E lui va dritto nelle pupille continuando a chiedere “Alice ça va?” “Alice tu as vu?” “Regard Alice”. Non si ferma, si infila tra un braccio e il mio fianco, riempie le mie mani con le sue, cerca i miei coi suoi occhi. E ancora “Alice Alice Alice”.
Alansandre aveva una mamma. La sua mamma si chiamava Alice.

Un pezzo di vita dedicato al mia papà, in questo giorno speciale.
Per convincerlo un po’ che, fosse anche solo per questi due occhi, ne vale la pena.

domenica 8 gennaio 2012

Noel des enfants ...?


È come aver mangiato tantissimo, ma poi qualcosa non l’hai digerito e te ne accorgi solo prima di infilarti sotto le coperte. È stata una giornata memorabile nella sua assoluta semplicità. La messa è stata un dolce cullarsi sulle voci dei bambini che hanno cantato durante la celebrazione per festeggiare il “Noel des enfants”: uno Zecchino d’oro di voci nere che ha riempito di dolcezza l’immensa chiesa affollatissima. A seguire, fuori sul piazzale, danze scatenatissime a ritmi irresistibili, animate e ballate dai bambini stessi. Il sole scaldava già, poi l’aria non tira abbastanza quando si è circondati da decine e decine di bambini che ti fissano con quei loro occhi neri e intanto ti chiedi “chissà cosa devo fare, chissà cosa si aspettano da me adesso” e scopri che non vogliono assolutamente nulla, che stringerti una mano è sufficiente; ma ne valeva la pena. Ci incamminiamo in parecchi verso il Centro: giochi canti e coccole a non finire prima del pranzo. E poi… piedi scalzi nella terra che piano piano diventa fango, schiene piegate, mani insaponate: abbiamo lavato piatti, bicchieri, posate e pentole per una settantina di persone. Sotto il sole sempre più caldo, perché intanto mezzogiorno era passato da un paio d’ore. Ho camminato senza scarpe sui sassi e ancora mi chiedo come fanno a correrci loro. Mi sono sentita ripetere una valanga di merci da Anna e Rebecca, le due cuoche che trecentosessantacinque giorni all’anno si spaccano la schiena per cucinare quintali di to, riso e cus cus ad una cinquantina di bambini. Ogni santissimo giorno, in forma o ammalate, non fanno mancare sorrisi sinceri e allegria tra le pareti della cucine ed anche oggi ci hanno riempite di ringraziamenti per il lavoro risparmiato loro. Ho cercato di contraccambiare in quantità i loro grazie per quello che ci stanno insegnando: restando nel retro, sudando in silenzio, faticano per far stare bene i bambini e non una volta che ci siano una smorfia o un sospiro di stanchezza su di loro. Finite le grandi pulizie quotidiane, Jean Noel ci ha atteso guardandoci mentre cercavamo di togliere il fango dai nostri piedi bianchissimi. La sua nonna, con cui vive siccome è orfano, ci dice di andarla a trovare. Eravamo stanche, provate dal caldo e dal fare, ma non potevamo dire “un’altra volta”. Ed allora eccoci: sedute nel cortile di Charlotte che di nonna ha davvero poco (a partire dall’età) con un bambinetto in braccio e arachidi da sgranocchiare in mano. L’intera famiglia era impegnata nella preparazione della cena (e del pranzo per il giorno dopo): to. La loro tipica polenta, stasera di farina di gros miglio. Che forza, che muscoli per girare quell’enorme impasto che doveva sfamare un’intera famiglia (africana, in qualità di dimensioni)! Charlotte ci ha invitate a cucinare insieme a lei, ci ha insegnato i movimenti giusti, dove afferrare il mestolo, come gettare la farina, la buille e infine come versare il tutto nelle pentole. Si, perché qui cucinare è una vera e propria arte, con le sue regole precise per chi la conosce e che lascia fascino e stupore per chi osserva. Infine, prima di incamminarci sulla strada, ci ha mostrato svelta la casa, invitandoci a tornare un’altra volta per visitarla perché… si stava facendo buio e non si vedeva bene l’interno …senza elettricità. In realtà non serve molta luce per vedere cosa ci sta dentro, perché abbiamo potuto vedere che non c’è assolutamente nulla, se non pareti senza porte che dividono lo spazio, pareti che tanto mi hanno ricordato la poltiglia di acqua e sabbia con cui amavo costruire piccole montagne in riva al mare. Siamo ripartite verso casa, accompagnate da un’altra nipote di Charlotte che portava sulla testa un regalo: due pentole con il to appena cucinato e la salsa per accompagnarlo, per la nostra cena di stasera. Non avevamo altro da dire se non merci; non si sa mai come contraccambiare. È stato sulla strada del ritorno che ho ingoiato quel boccone che non riesco a mandar giù: in fondo alla via musiche e danze. È il funerale di un bambino che ieri ha preso la pistola del papà cacciatore e si è sparato. Si è fermato in gola questo nodo, perché stamattina al centro gli altri bambini mi hanno raccontato che nei giorni scorsi, durante le vacanze di Natale, lui è venuto al Centro a giocare con noi. Ho riguardato le foto delle mattine trascorse, non sono riuscita ad individuarlo, ma ci sono solo due bambini che giocano con noi e che però non sono del Centro. Aspetto di incontrare uno dei due, prima o poi, per capire chi è che non mi saluterà più passando per strada. 

mercoledì 4 gennaio 2012

Inaspettatamente


Alle 17, mentre cercavo di strimpellare qualcosa alla chitarra con Teresa, delle voci oltre il muro: “Alis, Teres!!!” Poi passi svelti, di una corsa e Alansandre, Jean David e Oscar al cancello nelle loro disordinate divise di scuola. Buttati gli zaini (se così si possono chiamare) al muro, si sono catapultati su di noi. Un turbinio di mani, abbracci e sorrisi…ed erano solo in tre. Erano appena usciti da scuola e sono passati a salutarci. Mentre Oscar scappa via senza dire nulla, Alansandre mi chiede se tal Fransesco, salutato stamattina al telefono mentre parlava con me, sarebbe mai venuto qui perché lo vuole conoscere. Chiacchiere a non finire, qualche parola impronunciabile in samo, solletico e torna Oscar con in mano cinque lecca lecca a forma di minuscoli coni capovolti arrotolati in pagine di quaderni. Non potevamo dire di no mettendo al sicuro le nostre pance italiane. Abbiamo mangiato insieme questo bon-bon davvero poco delizioso, ma il gesto contava più dell’oggetto. Ci hanno mostrato i loro quaderni, colorati da penne rosse e blu, ordinati tanto quanto stropicciati. Hanno ballato cantando. Mentre in un baleno il cielo si faceva scuro (qui il momento del crepuscolo dura davvero pochi istanti) hanno raccolto tutto di fretta e hanno chiesto di essere accompagnati fino al cancello. Il paradosso di questi bambini con ginocchia e gomiti perennemente sbucciati, dall’apparente senso del pericolo inesistente è la loro paura per i cani, fedeli guardie del cortile. Aggrappati alle nostre braccia e superato il cancello se la sono date a gambe levate fino alle loro case. “Merci pour etre venus nous saluer”. Che bello sarebbe se potesse diventare appuntamento quotidiano, ma non oseremo chiederlo. 


martedì 3 gennaio 2012

Faccio finta di giocare a...

Immaginatevi una strada qui.
Qualcosa di normale insomma: niente asfalto, terra rossa, alberi. Poi metteteci maiali asini e pulcini a passeggio. In più un bambino seduto dentro ad un secchio. Comodamente lì, proprio nel mezzo di quella strada.
Bè, che bella fotografia. 
Al nostro passaggio ha alzato la sua manina, senza nemmeno troppo interesse ci ha salutato e… ha continuato a giocare. Chissà dove pensava di essere. Mi ha fatto sorridere e ancora pensandoci mi diverte.