C’è da attraversare una buona fetta di villaggio e le strade
per raggiungere la nostra meta sono infinite. Scegliamo di prenderne di nuove,
di seguire i passi esperti dei bambini, di non avere percorsi prestabiliti ma
accettare anche di sbagliare il tragitto, tanto qualcuno che ci rimette su
quello giusto sempre lo troveremo.
Il nostro cammino non è fatto solo di piedi che si muovono,
ma è soprattutto fatto da bambini che scendendo dalla bicicletta si precipitano
verso di noi per stringerci la mano e ripartire; è fatto da manine che
sventolano e voci simpatiche che ci salutano nella nostra lingua: “Alice, Thérése…
ciao!”. E lungo la strada incontriamo le donne: al pozzo per riempire i secchi,
all’ombra di un albero per pestare il miglio con il mortaio che, dal ritmo che
ne esce, sembra un tamburo. Donne che allattano, donne che pettinano altre
donne, donne che sudano, donne che cucinano, donne che passeggiano con ceste
indescrivibilmente grandi sopra le loro teste. Quasi come fosse un obbligo
vivere all’aperto, ma è facile immaginare il perché: le case sono piccole,
soffocanti, buie.
Poi c’è lui, il solito signore con la sua camicia color kaki,
seduto fuori dalla sua abitazione e che non manca mai di alzare lentamente le
sue mani e stringerle insieme, segno di saluto per noi. Tutti ci salutano,
alcuni ci ringraziano anche e ancora non abbiamo capito bene il perché. Sorridono
di gratitudine quando rispondiamo ai saluti nella loro lingua, il samo,
piacevolmente stupiti da questo piccolo passo che ci avvicina un po’ alla loro
cultura ancora così lontana, affascinante e misteriosa per noi. Sono due giorni
che, sulla strada del ritorno, non incontriamo più l’anziana signora seduta
sulla sedia di bambù. Il semplice fatto di essercene accorte ci fa capire che
il nostro stare qui è camminare, conoscere e riconoscere, incontrare coloro che
sono su queste stesse strade di polvere rossa. Quando il saluto di qualcuno non
c’è, ci si volta per cercarlo e se non lo si trova, sentiamo che non può
sostituirlo quello di un’altra persona. Questa sta diventando semplice
quotidianità, la quotidianità di incontrare persone a noi sempre più familiari.
Siamo convinte che, fosse anche tra parecchi mesi, arriveremo a chiamare questo
posto casa.
Alice e Teresa
“Se a scendere c’è una
giovane donna con bambini, assisteremo a una scena piena di grazia e di
destrezza. Prima di tutto la donna si lega il bambino sulla schiena con il
fazzoletto di cotone, si accuccia e appoggia sulla testa l’immancabile ciotola
o catinella con cibo e altre mercanzie, poi si raddrizza, si bilancia, cerca
l’equilibrio compiendo con il corpo un movimento simile a quello di un
funambolo che posa il primo passo su una corda tesa, quindi afferra con la
sinistra la stuoia intrecciata, che le serve da letto, e con la destra la mano
dell’altro bambino, dopo di che avanzando con passo uguale e misurato imboccano
il sentiero nella foresta, che li porta verso un mondo che non conosco, e che
forse, non riuscirò mai a capire”.
Da Ebano, di R.
Kapuscinski
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