Se avessi talento, pazienza e tempo a sufficienza ci sarebbe
da scriverci un libro. Si perché di gente ne abbiamo conosciuta, tanti pensieri
e impressioni sono stati scambiati, sorrisi regalati e tanta positività
intascata. La partenza era un misto di curiosità, perplessità e speranza. Dopo
l’ultimo viaggio a Ouaga, era naturale preoccuparsi nuovamente a come
sopravvivere nel caos disordinato della capitale.
La stima all’interno del petit car che ci ha portato fino a Ouaga ammontava
un’ottantina circa di passeggeri, tra cui uomini, donne e bambini e due polli
dalle zampe legate; sopra al veicolo, tenuti ben saldi da corde infinitamente
lunghe: borsoni, bacinelle, sacchi di riso, farina, fagioli, undici capre, due
motorini, una bicicletta e una cesta con circa una quindicina di polli.
Insomma, non eravamo da sole! Così il viaggio alla volta della grande città è
cominciato sotto il sole delle 8.40, con un ritardo che di norma altera
notevolmente i pendolari di Trenitalia, me in primis.
Penso che sarebbe saltato fuori un bel fumetto se qualcuno su quel pullman
insieme a noi si fosse messo a disegnare le nostre facce: un susseguirsi di
occhi sgranati, bocche spalancate e poi gomitate e sguardi d’intesa quando… un
uomo, che evidentemente stava ancora legando i bagagli, scende dal tettuccio
del pullman e con agilità e destrezza di chi conosce bene il suo mestiere,
rientra dalla porta …il tutto mentre sfrecciamo sulla strada tutta polvere e
buche; un passeggero dal fondo del petit car, al momento di scendere, prende la
strada più breve, come qualsiasi uomo con un po’ di senso farebbe: esce dal finestrino.
Anche il ragazzo che passa a controllare i biglietti sceglie la via più corta.
Poi una donna che chiede di scendere e l’autista che non si ferma, continua a
schiacciare sull’acceleratore ancora per un paio di kilometri. Smettiamo di
capire cosa sta succedendo quando l’atmosfera si surriscalda e tutti cominciano
a parlare, con toni decisamente alti, nelle loro lingue: samo? Morè? Djula? Sentiamo solamente qualche parola in
francese che dice “Elle est ta petit soeur, tu fais du
mail a ta petit sœur.” “Pourquoi tu te n’arretes pas ? La
femme n’a pas le droit de descendre?” e
capiamo che tutti quegli uomini che hanno iniziato a gridare e inveire contro
l’autista stanno prendendo le difese della donna. Posizione che mi conforta
avendo ormai conosciuto quale è il posto e l’onore riservato a chi indossa la
gonna qui.
Arrivate a destinazione incontriamo, uno dopo l’altro, come
se qualcuno ce li avesse preparati nei posti giusti e al momento giusto, tanti
piccoli angeli custodi che, senza che probabilmente mai lo sapranno, hanno
trasformato quella che doveva essere avventurosa sopravvivenza in un esempio
indimenticabile di accoglienza.
Il the delle cinque
Ora ripenso…
…al pomeriggio di giovedì: come Helen che perde la metro e prende un taxi per
rincasare in Sliding doors, così noi
abbiamo aspettato la nostra metropolitana in ritardo di un paio d’ore sulla
nostra occidentalissima tabella di marcia e, in quelle due ore, abbiamo
conosciuto una decina di ragazzi provenienti da Togo, Benin, Niger, Guinea
Conakry e ci siamo ritrovate a bere the caldo insieme a loro, seduti in cerchio
e semplicemente a chiacchierare, a chiedere chi
sei, cosa fai, cosa ne pensi di quello che hai visto fino ad oggi e a farci spiegare tanti comportamenti e
situazioni a cui ancora non sappiamo dare un senso o una spiegazione.
…al bicchierino di the, piccolo come quello degli amari, riempito una volta per
ciascuno e che passava di mano in mano e di bocca in bocca.
…alla voce del muezzin che esce dagli altoparlanti delle moschee che riempiono
la capitale e richiama i ragazzi alla preghiera che, uno dopo l’altro, si
alzano e si allontanano, dandosi il cambio per non lasciarci sole.
Senah
Senah, uno di quelli che ti fa pensare che Dio deve averci
messo qualche secondo in più degli altri a crearlo, bello e perfetto com’è. È
venuto a salutarci alla porta la prima sera; venerdì è passato ancora una volta
per darci la buonanotte. Siccome mi ricordavo bene l’intensità della sua stretta
di mano, la seconda volta non mi sono fatta trovare impreparata e ho risposto
al suo saluto con altrettanta forza. Questo deve averlo sorpreso perché ha
tenuto stretto ancora un po’ la mia mano e mi ha regalato uno dei sorrisi più
belli mai visti guardandomi dritto dritto negli occhi.
Resta da perfezionare
Giovedì sera l’abbe Prosper ci ha portato a mangiare il
pesce alla griglia… rigorosamente con le mani! Cotto sul bordo della strada,
non aveva nulla da invidiare al pesce cucinato nei ristoranti in riva al mare. Ho
dato sfoggio di ciò che mi avevano insegnato in Sierra: sembrano gesti
grossolani e fatti a caso, ma in realtà dietro vi è nascosta una tecnica per
nulla naturale a noi che il cibo lo sfioriamo con coltello e forchetta. Finito
il sopra e il sotto del pesce, è stato
il momento della testa: me la sono mangiata, con sforzo notevole e a occhi
chiusi. Ma qui imparo che, davvero, non si butta via niente. Grande consenso ha
avuto la leccata finale alla mano; questa gente sarebbe perfetta per i fonzies.
Resta da specificare che la tecnica è ancora da affinare: un altro motivo per
essere felice di avere davanti ancora nove mesi.
Occasione trovata
È qualche settimana che abbiamo deciso di andare a Sabou, un
villaggio decisamente non troppo vicino e nemmeno di strada per i petit car che
spostano gente e cose ogni giorno e più volte al giorno. Il problema è dunque
il come arrivarci. E così, venerdì, abbiamo incontrato lungo la stradina che ci
portava alla camera l’abbe Benjamain di Koudougou (villaggio distante una
quarantina di kilometri da Sabou) e, dopo poche chiacchiere, ci ha lasciato il
suo numero, dicendosi disponibile ad accompagnarci fino a Sabou non appena
abbiamo tempo. Quando si cerca un passaggio, qui dicono “Je cherche un’
occasione”. Noi nemmeno l’abbiamo cercata che qualcuno già ce l’aveva offerta.
Occhi dentro occhi
Anche lui l’abbiamo conosciuto per caso, perché era lì ed
anche noi ci siamo ritrovate nello stesso posto. L’abbe Benoit parla e sa
ascoltare. Parla e ascolta non solo con la bocca e con le orecchie; è uno di
quelli che ha il dono di ascoltarti con gli occhi e secondo me gli occhi hanno
un rapporto privilegiato col cuore. Finalmente, vuoi che il francese migliora
sempre più, vuoi che ero seduta al suo fianco, ho raccontato a qualcuno perché
oggi mi trovo su questa terra. Ora mi resta un dubbio: avrà capito cosa è
riuscito a fare dal mio timido merci beaucoup?
C’era un cammello parcheggiato
a bordo della strada.
Un’ immagine tipica quando si vuole generalizzare sull’
Africa, inusuale del Burkina Faso. Dal petit car l’ho visto seduto lì, davanti
ai banchetti in cui si vende un po’ di tutto. Ho reagito come fanno i bambini
quando passano davanti ad un negozio di caramelle, o come faccio io davanti
alla vetrina della pasticceria: sussulto, mi giro, spalanco la bocca e dico
“nooooooooooooo”, dalla O un po’ aspirata perché è meraviglia pura. Ma perché
un cammello in città? Ben presto mi saltano alla mente le immagini viste al
telegiornale l’altra sera: il Mali è in rivolta, i Tuaregh si spostano, escono
e si fanno profughi in una terra poverissima, dove comunque è assicurato
qualcosa di meglio: la vita. Sono arrivati anche in Burkina Faso; attraversano
i deserti e sono a migliaia. Undici li abbiamo anche caricati sul pulmino del
viaggio di ritorno. Non avevano nulla se non una stuoia, i loro letti, e i più
fortunati zainetti vuoti e sgualciti. Ognuno si è stretto ancora un po’ di più
al suo vicino e si è fatto posto per ciascuno. Quando sono scesi a Reo, dopo
due ore, hanno attraversato la strada, si sono girati e, guardandoci negli
occhi, hanno sorriso a noi che ancora non avevamo raggiunto la destinazione. Occhi
pieni di chi vive un lutto o una nostalgia di qualcosa che fuori non c’è più ma
che dentro ti riempie.
Siamo tornate a Toma. Ma come si fa spiegare a questa gente
cosa abbiamo vissuto quando tutto questo per loro è normalità? È come dire che
sei stato al mare e hai fatto il bagno: qualcosa di speciale?!