Eravamo di fretta, probabilmente
per la prima volta da quando siamo qui. Eravamo di fretta e pedalavamo
velocissime sulla strada del ritorno, tutta in salita; la fatica si faceva
sentire nel fiato corto e nei muscoli che imploravano di fermarci. Qualcuno li
ha ascoltati e così… ci siamo fermate davanti ad una mano insistente che ci
salutava e un ripetuto bonsoir, insolito da parte di un uomo. Nel venire verso
di noi ci dice “J’ai une commissione pour vous”: eccolo, abbiamo pensato,
figuriamoci se non vuole qualcosa. Si perché qui tutti chiedono qualcosa ai
bianchi: i bambini le caramelle, altri i vestiti, chi direttamente qualche
soldo e chi cibo. Mettici che la siccità causata dalle poche piogge della
stagione passata sta costringendo la gente ad una povertà davvero elevata;
gente impreparata davanti ai piatti vuoti: può risparmiare chi ha qualcosa che
avanza. Mettici anche che la storia di un uomo si fa sulla storia dell’umanità
e così, il bianco è più ricco e matematicamente può donare ciò che ha. Allora
abbiamo aspettato che lui si avvicinasse a noi e ci siamo scambiati i più
educati saluti stringendoci le mani. Eravamo in attesa, un po’ in imbarazzo e
un po’ sulle nostre, sperando di riuscire a cavarcela anche questa volta.
Invece, sorpresa! Ci ha fermato perché ci vede passare ogni giorno; lavora nei
nuovi edifici dediti all’educazione all’alfabetizzazione e si è detto “ogni
giorno passano di qua, ma chi sono?”. Semplicemente desiderava conoscerci. Dopo
avergli promesso che nei prossimi giorni, strada facendo, ci fermeremo a
salutarlo, siamo risalite sui pedali e il corpo non era più stanco, forse
perché la testa era occupata a pensare a quel ragazzo, al primo pensiero
nato, all’ennesimo pregiudizio che non
ho saputo frenare, alla gioia misto stupore di cui quell’ incontro mi aveva riempito.
Ripensandoci stasera mi vengono in mente tutte le persone che per giorni e giorni, mesi e anni ho incontrato quotidianamente sulla mia strada: chi in stazione e chi sul treno; i vicini di ombrellone ma anche quelli di casa; nella classe di fianco, la commessa del Conad. Tutti perfetti sconosciuti. E poi penso a come si debbono sentire gli stranieri a casa nostra, quando nessuno rivolge loro un trattamento speciale, spesso nemmeno un trattamento; penso soprattutto a quegli stranieri che per cultura, nella loro terra, considerano l’ospite sacro. E poi mi chiedo: è proprio sacralità protendere verso l’istinto più umano che umano non si può, ovvero il conoscere l’altro? Ho da pensarci su.
Ripensandoci stasera mi vengono in mente tutte le persone che per giorni e giorni, mesi e anni ho incontrato quotidianamente sulla mia strada: chi in stazione e chi sul treno; i vicini di ombrellone ma anche quelli di casa; nella classe di fianco, la commessa del Conad. Tutti perfetti sconosciuti. E poi penso a come si debbono sentire gli stranieri a casa nostra, quando nessuno rivolge loro un trattamento speciale, spesso nemmeno un trattamento; penso soprattutto a quegli stranieri che per cultura, nella loro terra, considerano l’ospite sacro. E poi mi chiedo: è proprio sacralità protendere verso l’istinto più umano che umano non si può, ovvero il conoscere l’altro? Ho da pensarci su.
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