lunedì 13 febbraio 2012

Niente in cambio


Eravamo di fretta, probabilmente per la prima volta da quando siamo qui. Eravamo di fretta e pedalavamo velocissime sulla strada del ritorno, tutta in salita; la fatica si faceva sentire nel fiato corto e nei muscoli che imploravano di fermarci. Qualcuno li ha ascoltati e così… ci siamo fermate davanti ad una mano insistente che ci salutava e un ripetuto bonsoir, insolito da parte di un uomo. Nel venire verso di noi ci dice “J’ai une commissione pour vous”: eccolo, abbiamo pensato, figuriamoci se non vuole qualcosa. Si perché qui tutti chiedono qualcosa ai bianchi: i bambini le caramelle, altri i vestiti, chi direttamente qualche soldo e chi cibo. Mettici che la siccità causata dalle poche piogge della stagione passata sta costringendo la gente ad una povertà davvero elevata; gente impreparata davanti ai piatti vuoti: può risparmiare chi ha qualcosa che avanza. Mettici anche che la storia di un uomo si fa sulla storia dell’umanità e così, il bianco è più ricco e matematicamente può donare ciò che ha. Allora abbiamo aspettato che lui si avvicinasse a noi e ci siamo scambiati i più educati saluti stringendoci le mani. Eravamo in attesa, un po’ in imbarazzo e un po’ sulle nostre, sperando di riuscire a cavarcela anche questa volta. Invece, sorpresa! Ci ha fermato perché ci vede passare ogni giorno; lavora nei nuovi edifici dediti all’educazione all’alfabetizzazione e si è detto “ogni giorno passano di qua, ma chi sono?”. Semplicemente desiderava conoscerci. Dopo avergli promesso che nei prossimi giorni, strada facendo, ci fermeremo a salutarlo, siamo risalite sui pedali e il corpo non era più stanco, forse perché la testa era occupata a pensare a quel ragazzo, al primo pensiero nato,  all’ennesimo pregiudizio che non ho saputo frenare, alla gioia misto stupore di cui quell’ incontro mi aveva riempito.
Ripensandoci stasera mi vengono in mente tutte le persone che per giorni e giorni, mesi e anni ho incontrato quotidianamente sulla mia strada: chi in stazione e chi sul treno; i vicini di ombrellone ma anche quelli di casa; nella classe di fianco, la commessa del Conad. Tutti perfetti sconosciuti. E poi penso a come si debbono sentire gli stranieri a casa nostra, quando nessuno rivolge loro un trattamento speciale, spesso nemmeno un trattamento; penso soprattutto a quegli stranieri che per cultura, nella loro terra, considerano l’ospite sacro. E poi mi chiedo:  è proprio sacralità protendere verso l’istinto più umano che umano non si può, ovvero il conoscere l’altro? Ho da pensarci su. 

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