sabato 31 dicembre 2011

Elise Isabelle e Lazar


Con un insolito anticipo dell’autista, questa mattina siamo partite alla volta di Ouaga. Alle 6 eravamo già nella vettura che quattro ore dopo ci ha scaricato nella caotica capitale.
Quello che è successo dopo è tutto da raccontare anche se rimane indescrivibile.  
Con una coca cola per colazione che, a modo suo, ha riempito le nostre pance e dato risveglio alla giornata, siamo andate alla ricerca di un pranzo, cosa decisamente non facile e pratica nelle strade della città. Non so se, oltre al fatto di non aver la stessa quantità di melanina in corpo, anche essere femmina incida sull’impossibilità di passare inosservata. Fatto sta che dopo aver trovato cosa, ma soprattutto dove mangiare ed esserci rifiondate in camera, la sensazione era la stessa di quando si corre per prendere un autobus che alla fine parte senza di te: stanche, appesantite e anche un po’ snervate. Oltre alle difficoltà del sopravvivere nel disordine del traffico (semafori rossi non rispettati, strisce pedonali inesistenti, branchi di biciclette motorini e carretti, sensi di marcia che moltiplicano le corsie di una strada che di norma ne avrebbe solo due) la procacciazione del cibo  ha messo a dura prova pazienza e nervi: impossibile era passeggiare per le strade. Ragazzi che continuamente cercano di venderti di tutto: da ricariche per i cellulari a spugne, da occhiali da sole a banane. Uomini che con insistenza ti chiamano da ogni angolo in cui è possibile essere notate, a volte con espressioni simili a quelle con cui io cerco di attirare l’attenzione del mio gatto. Ti braccano, fisicamente è impossibile continuare a camminare. Dicono “solo per parlare, solo per conoscersi” ma noi oggi, esasperate dall’insistenza e affamate, non siamo state sufficientemente gentili per accontentare le loro esigenze. Avrei voluto essere semplicemente invisibile, desiderio molto più realizzabile dell’altra alternativa che ci avrebbe permesso di sentirci normali: essere nere.  Ad una donna appoggiata alla porta di una concessionaria Suzuki abbiamo chiesto dov’era possibile trovare qualcosa da mangiare simile a del poulet grillè e con una cortesia che ci ha lasciato stupite e alleggerite ci ha indicato un posto dentro la Maison de peuple, poco distante da dove ci trovavamo. I cinque minuti necessari per raggiungerla li abbiamo camminati a testa bassa facendo finta di non sentire i continui richiami  e facendo altrettanto finta di non sentire i commenti alla nostra indifferenza. Non riuscivamo a sorridere, non volevamo guardare negli occhi quella gente accatastata intorno, zero cortesia, gentilezza, educazione. Dopo ci è stato spiegato (mentre raccontavamo le nostre sensazioni e con un non leggero senso di colpa ad un “esperto” italiano – da 17 anni in Burkina) che questo atteggiamento è l’unico che ti permette di sopravvivere tra le strade della capitale, dove se non ti conoscono e non hanno fatto l’abitudine ad incontrarti, rimarrai sempre e solo un bianco ricco, o comunque qualcuno che ha più soldi di loro. Ma dicevamo… siamo arrivate a destinazione finalmente, al nostro pollo! Una ragazza sorridente ha preso le nostre ordinazioni e ci ha fatto accomodare ad un tavolino, tutto nella norma, almeno fino a quando un ragazzo dopo l’altro non ha cominciato a chiedere di potersi sedere al nostro tavolo. Sfruttando il “nous ne sommes pas françaises” e quindi facendo finta di non capire la lingua; altre volte rispondendo con un secco NO alle loro richieste, ci siamo sbaffate l’ottimo pollo alla griglia con patate (il più buono da quasi due mesi a questa parte). Gli angeli sono arrivati in questo preciso momento, quando restavano le ultime patate sul vassoio. Elise e Isabelle, la prima colei che ha preso le ordinazioni, la seconda la cameriera, si sono sedute al nostro tavolo ed hanno iniziato a chiacchierare, a chiedere di noi. Io e Teresa eravamo emozionate, visibilmente stupite da questa inaspettata e tanto gradita attenzione. Due ragazze, avranno avuto la nostra età, in cinque minuti hanno risollevato la nostra impresa “cibo e sopravvivenza”. Forse per la prima volta in vita mia ho potuto trovare in uno sguardo la comprensione di un’altra donna per questioni di donne; Elise e Isabelle avevano certamente percepito il nostro disagio nell’ allontanare gli altri, sicuramente stavano capendo il fastidio che una ragazza prova davanti a tanta insistenza. L’assenza di secondi fini in questa breve chiacchierata ci ha riempito nuovamente di speranza. Il pomeriggio è proseguito nella calma e tra le zanzare della camera in cui abbiamo alloggiato fino alle cinque, quando ci siamo riavventurate per le strade alla ricerca di un taxi. Meglio del previsto questa ennesima esperienza! Siamo arrivate a destinazione incontrando anche la gentilezza dei poliziotti che, invano ma cordialmente, hanno cercato di capire dove si trovasse la casa di cui eravamo alla ricerca. Una vasca di Italia e poi via di nuovo sul taxi.
Causa varie incomprensioni (lingua… ed io che ero convinta di essermi spiegata così bene!) ci ritroviamo in camera la sera del 31 dicembre senza cena e con nessuna intenzione di uscire per cercarla. Per fortuna avevamo una scorta di pane, olive, nutella e yogurt negli zaini; in più mettici cioccolatini e torroni arrivati direttamente dall’Italia, ci siamo saziate alla grande! Cenone di capodanno con una sedia come tavolino e la musica della città che entrava dalla finestra: indimenticabile… insieme alla tragedia che si è compiuta allo scoccare della mezzanotte con il vasetto di nutella che cade sul pavimento frantumandosi in mille pezzi.
Il giorno dopo siamo ripartite per Toma. Nell’attesa (durata quattro ore e mezza, causa macchina in tilt) abbiamo chiacchierato con Alassane in quei giorni a Ouaga per cercare di racimolare qualcosa per sfamare la moglie e i loro due figlioletti che lo aspettavano al suo villaggio da più di due settimane. Una chiacchierata risanante, ancora una volta perché senza secondi fini. Inoltre decisamente molto interessante perché nei discorsi spesso Alassane ha parlato di “seconda moglie” ed ogni volta, come se fosse sempre la prima, balena nella mia testa che la maggior parte della popolazione qui è musulmana, con la conseguente idea di donna che ne deriva.

Insomma, due giorni tutti da ripensare. Certo è cominciato in me quel percorso di destrutturazione di tutto ciò che credevo di non pensare ma che, inevitabilmente in queste ore, mi sono accorta di fare. Facile è giudicare, facile è puntare il dito, facile è condannare per i modi invadenti, per una fisicità molesta, per un’insistenza ineguagliabile. Destrutturazione di aspettative, miti, opinioni e giudizi; mettere da parte e lasciarmi sconvolgere da quello che mi sta succedendo. È semplice vedere che siamo “altro”, difficile vivere da straniero nella diversità; è rispettoso riconoscere che i loro modi non sono peggiori, ma sono solamente diversi; doveroso è leggere i loro comportamenti verso i bianchi alla luce di tutta la storia del continente nero, a partire dalle loro tribù, passando per schiavitù e colonizzazione, senza dimenticare di questa nuova epoca di neo-colonizzazione.  

Non posso però non raccontarvi di cosa mi ha aspettato al ritorno: un abbraccio pulito e sincero di Lazar, il ragazzo che abita di fianco a noi e che incontriamo tutti i giorni. Una consolazione, una dolcezza, un ristoro. È stato il primo loro abbraccio. Ha degnamente incoronato l’inizio di questo 2012 che, grazie a lui, comincia nel modo in cui tutti (e qui penso ai bambini che incontro ogni giorno) ogni giorno dovrebbero avere il diritto di sentirsi: considerati, accettati e abbracciati per quel che si è.

Buon anno a tutti voi che avete avuto la pazienza di leggermi, con le parole di R.M. Rilke:
“Se la vostra quotidianità vi sembrerà povera, non date la colpa a lei. Accusate voi stessi di non essere abbastanza poeti per chiamare a voi le sue ricchezza. Per il creatore niente è povero.” 
e l’augurio di trovare la bellezza nelle piccole, minuscole cose quotidiane. 

venerdì 30 dicembre 2011

Un memory memorabile


Abbiamo giocato a memory in quindici su un tavolo grande come un banco di scuola. Io ero la più grande naturalmente, dopo di me Dimitri (undici, dodici anni) fino a Severine e Severin (gemellini di quattro). 
Un gran silenzio, di quelli che qui nemmeno la notte ci sono. Concentrazione, spiate, occhiolini e suggerimenti.
I disegni delle ciliegie sono diventati “petites tomates” e il cavalluccio marino un serpente; la conchiglia era una lumaca e il quadrifoglio il dà, una foglia molto usata per le salse. 
Qualcosa, per fortuna o abilità mnemonica, l’abbiamo vinto quasi tutti… e chi non vinceva, riceveva le carte uguali dagli altri. 
Bambini rimasti bambini e non sovra stimolati: un sogno. Deformazione professionale? Non so. So solo che non vedo l’ora di tornare a giocare con loro. 

mercoledì 28 dicembre 2011

La meme chose


Alansandre sollevava le maniche della mia maglietta, guardava la mia pancia e poi la schiena. Sollevava i pantaloni per guardare le caviglie e i polpacci. Controllava i capelli: tutti veri, niente di finto attaccato. Mi avrebbe vivisezionato se lo avessi lasciato fare, penso. Parlava svelto in samo con Jean David, commentavano il colore della mia pelle. L’ho capito dalle loro facce cosa si stavano dicendo: “nous ne sommes pas la meme chose”.
“Quanti occhi hai?” “Due”
“Quante orecchie?” “Due”
“Nasi?” “Uno!”
“Quante bocche?” “Una”
 
“Io ho due braccia. E tu?” “Due”
“Poi ho due gambe e due piedi” “Anch’io”
“Aspetta! Ho anche due mani!” “Anch’io ne ho due!”
“Ho cinque, dieci, quindici, venti dita!” “Anch’io!”
“Poi qui ho un cuore, uno solo” “Anch’io ne ho uno, uno solo”
“E allora?” “Nous sommes la meme chose” 

lunedì 26 dicembre 2011

Nel mio Natale a Toma...

... tantissimi bambini!




Questo è stato proprio un Natale strano, forse basterebbe dire "diverso"...tant'è che non mi sembra Natale, ma non credo sia riducibile al fatto di sentirlo o no.
Alessia in braccio, Aisha da curare, Adama da medicare, il resto con cui giocare.
Niente di speciale, niente di eclatante, niente di extra-ordinario. E sapete che… è stato bello forse proprio perché è stata una giornata normale? Così Natale non finisce oggi, ma sarà anche domani e speriamo pure tutti i giorni che ci saranno.

domenica 25 dicembre 2011

Babbo Natale

Non era vestito di rosso, non era grosso tant’è che per farne uno ci sono servite due bambine; di bianco nemmeno la barba. Non ha lasciato nulla sotto l’albero, tantomeno si è calato da un camino.
È arrivato di mattina, verso la fine della messa.
Con quattro braccia ha allungato nelle mie Alessia. Alessia dormiva un sonno profondissimo e così ha continuato a fare.
Insieme all’immagine di un papà che coccola un bambino, tenere tra le braccia un piccolo che dorme rientra tra le emozioni più forti che finora ho vissuto. Fa sentire molto mamma... senza dimenticare che oggi è Natale e Alessia assomigliava terribilmente ad uno di quei dipinti in cui Gesù dorme beato (e io di Maria solo l'azzurro del vestito).

sabato 24 dicembre 2011

Portava in sé la nostalgia di un altro mondo, di un altro modo di vivere


“Ci ha rivelato che essere stranieri è la nostra condizione più vera.
Che non sentirci mai del tutto a casa non è un disagio mentale
ma la verità del nostro destino in questa esistenza.
Ciò che da straniero hai vissuto lì
ti aiuti a riconoscere in te quella sete inesauribile di vita”


Siamo nel pieno dell’inverno in Africa ed in effetti ogni notte fa un po’ più freddo della notte precedente. Dormo con una coperta di pile ed un piumino… doppio. Si, anche qui fa freddo a Natale. Sarà condizione comune di questo Gesù che nasce, ovunque al freddo.
Si incontrano tanti bambini per le strade, tutti avvolti da giacche a vento, incappucciati e… con le infradito ai piedi. Spesso si sorride nel vederli, ma dopo alcune notti capisci che devono avere freddo davvero. Li guardo e mi chiedo se quella notte hanno dormito in un letto, se il pavimento è più comodo di una mangiatoia o se più semplicemente ce l’hanno una coperta per scaldarsi. Dopo aver ascoltato una chiacchierata a tavola l’altro giorno, ho trovato la risposta. Sicuramente ci avranno anche dormito con la giacca, non avendo altro.
È la vigilia. Con la connessione nuovamente attiva, il desktop del mio pc si è riempito di una valanga di mail. Messaggini e telefonate sul cellulare: da oggi mi piace avere una scusa per sentirsi.
Confermo: è strano stare qui oggi, anche se passeggiare è come concedersi una gita nel mezzo di un presepe vivente. È strano stare a Toma oggi più degli altri giorni perché, per l’ennesima volta da lontano, mi accorgo di quanto è bello avere una famiglia e degli amici, ma soprattutto mi accorgo di quanto è bella la famiglia che ho e quanto bene voglio ai miei amici e quanto sia difficile starci lontano, specialmente in certi momenti. Ed ho scoperto che in Burkina il Natale non è la festa della famiglia. Io sono qui, ma ovunque vada resto sempre me stessa.
Voglio riuscire a farmi inondare il cuore e il corpo dalla musica che tra poco riempirà tutto, e trasformerò il mio bel pensiero a voi in sorrisi, perché questa sensazione non ha nome diverso che malinconia. Ma è data da una forte consapevolezza: quanto affetto ho nella mia “casa”. E questi bambini? Quanto ne hanno?

giovedì 22 dicembre 2011

Random

-          Abbiamo mangiato al Centro coi bambini, sedute tra di loro. Stupore sui loro volti, qualche risatina, sguardi complici: “anche i bianchi mangiano… come noi?”
Mi sono proprio divertita in quella mezz’oretta nel sentirmi spiata. È stata una sensazione “familiare”: mangiavo senza imbarazzo alcuno nonostante un centinaio circa (o poco meno) di occhi addosso. (Qui – purtroppo ma comprensibilmente – i bianchi sono sempre guardati: a passeggio o in bicicletta, sul motorino o sedute, qualcuno che si gira, guarda e continua a guardare, qualcuno che sorride anche e poi saluta. Timidezza, imbarazzo, vergogna si alternano in continuazione… e nuovamente mi accorgo di essere bianca)


-          Una mattina pedalando, anzi cercando di frenare, giù dalla discesa che porta al villaggio e stando attenta a scegliere sasso o buca, una voce, poi un’altra e un’altra ancora: “nassara nassara nassara!!!” e un gruppetto di bambini che, atleticamente e con disinvoltura, saltano fuori dalle finestre della scuola. Prova degna di olimpiadi, con tanto di medaglia naturalmente.
-          È successo: mi hanno chiamato per nome. Alis.
Il primo è stato un bambino che non ho potuto riconoscere perché subito si è nascosto dietro il pozzo.
Il secondo Jean David fuori da casa sua.
Ieri Angel nascosta dietro il muro.
Poi i bambini dalla porta della scuola.
Giudi… ricordi l’emozione vero?
-          22 dicembre 2011: approfitto per festeggiare da qui e come posso la vecchia zia Anto!!! Per questa giornata importante stamattina ci siamo concesse un caffè… in onor tuo! DIVERTITI DIVERTITI DIVERTITI!!! Sei proprio bella sul calendario appesa sopra questa scrivania! un bacio!

lunedì 19 dicembre 2011

Se solo da lì poteste sentire...

...il villaggio intero che canta per aspettare il Natale: musica ovunque.
Voci di bambini da dietro la scuola, ritornelli che si ripetono alle prove del coro. L'aria è piena, le melodie la riempono. Tutti cantano, anche le campane dicono la loro. Sembra proprio che qualcuno stia arrivando!

domenica 18 dicembre 2011

"I calli onorano le mani più degli anelli"

Questa mattina, erano circa le dieci direi, è venuta qui Adeline, solare e sorridente come le altre volte che l’avevamo già incontrata. Ha fatto colazione: nescaffè, latte in polvere, pane e burro. Un po’ per farle compagnia, un po’ perché speravo nell’effetto, mi sono bevuta un nescaffè allo stesso tavolo. Abbiamo poi sparecchiato insieme: via piatti, tazze, scatole… tutto al proprio posto. Mi son messa a pulire il tavolo con la spugna, per raccogliere le briciole e asciugare l’acqua sgocciolata. Adeline fa per prendermi la spugna, io resisto e lei insiste, ma sono più ostinata io: quindi lavo il tavolo. Adeline mi ha fissato, ho sentito i suoi occhi neri d’Africa su di me, e dalla sua bocca sono usciti stupore e l’umiltà di un “merci” sussurrato.
Solo ripensando alla storia di questo continente capisco la meraviglia che deve aver provato.
Strofino in silenzio quella tovaglia cerata con un po’ di rabbia e altrettanta vergogna. La prima perché non sono tanto convinta che in un anno la gente smetterà di stupirsi se ci si mette alla pari; la seconda perché le mie mani sono morbide e lisce… anche se dopo un mese di bucato a mano un po’ di crema servirebbe… ma per fortuna non l’ho portata.

sabato 17 dicembre 2011

Sono bambini bollenti

Io non so perché bruciano così, non possono mica avere sempre tutti la febbre. Quando ne hai in braccio uno sembra di avere sulle gambe una borsa dell’acqua calda. A qualsiasi ora del giorno.
Se qualcuno avesse osservato il tempo dall’una alle due di oggi pomeriggio sotto l’apatam, tutti quei bambini sarebbero “piccoli disgraziati scalmanati che si rotolano, aggrovigliano, arrampicano ovunque ci sia uno spazio più piccolo del necessario per farlo”. Io che ho l’immensa fortuna di esserci stata in quell’ora sotto quell’apatam e di avere un po’di spazio sulla schiena, sulle gambe, tra le braccia e sopra le spalle (spazio comunque sempre mai sufficiente, sia chiaro) quei bambini là sotto sono “abilissime scimmiette con pance mezze vuote, energia da far girare il mondo intorno al suo asse, gelosia per qualsiasi attenzione non rivolta direttamente a loro, bambini di gomma irrompibili, ritmo innato”. Un bel cocktail che fa venire ancora più sete. E pedalare per tornare a casa fa venire il fiatone, mettici poi anche il sole poco lontano dall’equatore. E adesso brucio anch’io e so che non è febbre. Forse è tutto quel rotolare, sporcarsi, risollevarsi, abbracciare, guardarsi di nascosto, fare l’occhiolino, farsi le linguacce, stringere mani… che mette quaranta gradi dentro. E questi bambini lo fanno da mattina a sera, ecco forse perché sono bollenti.

venerdì 16 dicembre 2011

pour Noel

Toma,12 dicembre 2011

E’ Natale tutti i giorni

All’apparenza insignificanti episodi ma, tra diversità, lingue sconosciute e in un Paese che non è il nostro, è tutto ciò che riempie di vita e senso le nostre giornate:

Quei dopo pranzo nel retro della cucina seduti sui sassi a bere caffè con Herman, Madi e Alì raccontandoci le nostre vite; non trovare le parole per farci capire e scoprire che ci hanno già capito dicendoci  “pour amitié”.
Le voci dei bimbi che ti chiamano nassarà (uomo bianco) e che, sdraiati, ti spiano da sotto il cancello. Le loro manine che salutano e lasciano l’impronta rossa sulla maglietta.
Il sorriso inaspettato della triste Alessia dopo una mattina di coccole.
La mano tesa di un bambino che chiede in elemosina una bottiglietta: per noi è solo plastica, per lui un sorriso che gli illumina il viso.
Guidare una panchina come fosse una moto insieme a sette bambini, quanta strada! “Per clacson mi presti il tuo naso?”
Stare seduti su un marciapiede polveroso accanto a un uomo consumato dalla fatica e dalla sete e cogliere nei suoi occhi la Vita che palpita in lui.
Camminare per le strade di Toma insieme a tanti, tantissimi bambini e cantare, ballare e contare in samo mentre il sole tramonta.
Caramelle e lecca lecca spezzettati in tante minuscole parti, tante quanti sono i bambini.
Tagliare le tovaglie di plastica con Herman e Joseph piegandole in quattro…e quadruplicando le braccia, il lavoro a fine giornata diventa complicità e una frase da ripetere: “ io sono contento”.


Potremmo decidere di rimanere paralizzate dalla paura nel vedere quanto siamo diversi. Oppure scegliere di aprire gli occhi e, con uno sguardo nuovo, lasciare spazio alla meraviglia. Ce lo avevano detto ed ora scopriamo che è proprio così: se vogliamo entrare nella vita della gente che incontriamo, dobbiamo accantonare grandi progetti allettanti e desideri di cambiamenti, sedendoci a tavola con loro, mischiandoci nella quotidianità.
Quando Gesù è nato, c’era chi si aspettava di trovarlo nei palazzi dei potenti. Invece Lui si fa trovare nella semplicità di un’insignificante mangiatoia. Come i pastori si lasciano conquistare dalla sua misteriosa presenza, così, anche noi, percepiamo che è qui nel silenzio del quotidiano.
Non desideriamo altro che continuare  a saperci sempre più meravigliare delle cose apparentemente più piccole e invisibili. Brezza leggera attraverso cui Dio ci parla.
Con la scusa di un Natale alle porte, alziamo ancora lo sguardo al cielo in cerca di quella cometa, per  vivere da testimoni nella realtà, la cui forza e verità non possiamo tacere: il cuore dell’uomo è lo stesso ad ogni latitudine.


Alice e Teresa

domenica 11 dicembre 2011

Ti trascini tra fango sudore e fatica

11 dicembre 2011: festa nazionale dell' Indipendenza
La stagione delle piogge normalmente inizia a giugno per finire ad ottobre: cinque mesi di acqua, un anno di vita. Quest’anno ad agosto ha smesso di piovere, due mesi e poco più di raccolto in meno, ma anche il 2011 ha dodici mesi. Un anno intero in cui sfamare bambini, donne e uomini.

Oggi è giorno di festa in Burkina, ma nella capitale (da cui siamo per quattro giorni) non c’è alcuna traccia di questa. Ci raccontano che normalmente le strade si riempiono di manifestazioni, di canti e di danze. Quest’anno no. Quest’anno non si festeggia, o meglio, non si spendono soldi per grandi eventi. Chi poteva oggi ha donato sacchi di riso, miglio e altri cereali a coloro che hanno subito i danni più onerosi di un raccolto scarsissimo ed una carestia imminente.

Un inno alla solidarietà e all’essenzialità, un esempio da portarsi a casa. Con una sola immagine in testa: gli occhi rosso sangue dell’uomo prosciugato dal caldo, stremato dalla fame e dalla sete, agonizzante… trovato sul ciglio della strada. La tipica Africa da documentario che finchè non vedi, non ci credi…o speri di non doverci credere.

giovedì 8 dicembre 2011

Ce soir...

...christmas card
maniche corte
grilli e zanzare
e un regalo: "un secret entre moi et toi"
...uau!

mercoledì 7 dicembre 2011

Fuori dalla cucina

È stato un pomeriggio lungo ma soprattutto pesante, stancante: dopo una lunga discussione, una lunga passeggiata, una lunga chiacchierata… tornare a casa, scegliere di fermarsi un po’ proprio con Alì e Madì – cuoco e autista – e sedersi per terra, su queste pietre rosse e sentirsi dire da loro “Voi non guardate mai dove vi sedete, non vi importa se è per terra …i bianchi di solito si preoccupano sempre se sono puliti o no ma voi…  siete belli così” e parlare, ridere e scherzare in completa armonia e complicità… non può che far tornare il sorriso. Perché anche per oggi abbiamo fatto quello che più di tutto al mondo ci piace fare: vivere… in mezzo agli altri e “lasciarci sporcare”!

sabato 3 dicembre 2011

Oltre la lingua

Siamo in cinque, cinque bianchissimi nasara ( = uomo bianco) a passeggio per il mercato del villaggio. Dobbiamo comprare piccole cose, chi per ricordo e chi per necessità. Poi è arrivata un’orda di bambini, i timidi e i meno timidi e… siamo circondati! Io non so bene, ma secondo me se ci fossimo messi a contarli ci saremmo fermati intorno alla cinquantina. Arrivano attraversando il mercato dopo la partita di calcio, competizione tra le diverse classi di una scuola. Ci guardano, ci scrutano proprio! Camminiamo per le strade con loro, come sempre ci seguono. Ci insegnano a contare in samo e noi in italiano. Ci fermiamo nel grande spazio davanti alla chiesa, cantiamo: noi i nostri soliti risentitissimi bans, loro le canzoni in samo e… ballano per noi! Un cerchio grandissimo, con la luce del tramonto, voci di bambini: sembra un festa!!! Scende il sole, si fa buio e dobbiamo rientrare, ma soprattutto siamo in pensiero per loro: anche i bambini devono fare ritorno alle loro case, dove qualcuno li aspetta…o almeno così è bello pensare. Invece non ci lasciano andare, anzi ci accompagnano fino davanti al cancello: un tragitto troppo breve e dire che abbiamo seguito la pista e non abbiamo tagliato per le scorciatoie. Passi scanditi dalle canzoni che cantiamo e che loro ripetono rasentando la perfezione.
Poi si allontanano. Abbraccio spontaneo e sincero con la Teresa: finalmente i bambini, tanti come solo in Africa ne son rimasti.  

venerdì 2 dicembre 2011

Alessia


Ore 10.30, accompagnata da Madì - l’autista – dal Centro alla casa, scorgo passando in automobile una bambina, seduta sola all’angolo di un muro, poco distante dall’ingresso del centro. Non do tanto peso a questa immagine, ma continuo a pensarci quando dopo poco ritorno al centro. Non ci sto, esco e vado a vedere se davvero quella bambina è quella che pensavo… ma qui, per me, ancora sono tutti molto simili. Invece…è lei, Alessia. Una dei bambini del centro, orfana di entrambi i genitori, affidata al nonno molto anziano e quasi cieco, con cui abita insieme alla zia e gli altri cinque figli di questa; conosciuti proprio ieri. La saluto, le faccio una carezza. Non un sorriso, nemmeno una qualsiasi reazione. Aspetto. La prendo in braccio e mi indica le ciabatte, rimaste a terra. Le prendiamo con noi, pochi passi per uscire dalle sterpaglie e camminiamo, mano nella mano, verso il Centro. Un ritmo lentissimo nei suoi passi, probabilmente se davvero l’avessi dovuta seguire, non ci saremmo spostate da quel muro. Ma è d’accordo, lei segue me e quei venti metri diventano lunghissimi, come se fossero kilometri per il tempo impiegato a percorrerli. Alessia continua a non guardare nessuno, non dà attenzioni, non si interessa a chi e che cosa la circonda. Se le lasciamo la mano non fa un passo.
Ma mi prendo cura di lei: le pulisco il viso, le sistemo la felpa, le do da bere… semplici gesti di cura, forse coccole. Affetto senza dubbio. Passa un’ora, forse anche di più. È un tempo davvero senza scansioni, è tutto uguale. Invece poi non so cosa succede, ma Alessia adesso stringe la mano e guarda negli occhi. La lascio andare, segue gli altri bambini nei giochi. Mi aiuta a sistemare le sedie per tutti i bambini che tra poco arriveranno per il pranzo. Sale sui tavoli, ride

e vola…  


Non serve tanto altro


Marie Jean spesso ha lo sguardo cupo e troppo serio per i suoi sei anni. Non ci sono tanti perché: non ha né mamma né papà. Li muove veloce i suoi occhi neri, scappa dagli sguardi degli altri. Poi ho pensato “è una bambina, cosa serve ad una bambina?” Qualcuno che si interessi di lei.
Quando oggi Marie Jean è arrivata al Centro per il pasto ho tenuto stretta la sua mano, allungata per dire <Bon jour> e le ho chiesto <Ca va?> e <Et l’ecole?>. Non ho dovuto aggiungere altro: Marie Jean ha scosso la testa e si è fatta spazio di fianco a me. È stata appoggiata alla mia spalla mentre arrivavano tutti gli altri bambini. Ha anche accennato ad un sorriso di risposta ad una carezza prima di andare a mangiare.
Ci voleva una piccola invisibile attenzione.

giovedì 1 dicembre 2011

1 dicembre: è da oggi Natale

Occhi ancora un po’ chiusi, forse più per la luce accecante delle 8.30 piuttosto che per la notte disturbata dal freddo, ma che inevitabilmente si spalancano quando, scesi dalla macchina, tre bambini sono corsi verso di noi: Ismael, Babane e Farid. Tendono le loro mani sporche e un po’ umidicce, educatissimi fin da piccoli quali sono nei saluti. Ismael ritarda un po’, fruga nelle tasche dei suoi jeans, ma capisco che devo aspettare. Mi chino per farmi più vicina a lui ed ecco che mi allunga ciò che cercava: due caramelle. Rimango stupita e non capisco bene; non ho nemmeno il tempo sufficiente per fargli capire quanto avevo apprezzato il suo gesto. Lui si gira, corre, se ne va. Resto sbigottita, con gli occhi che un po’ si richiudono, questa volta per nascondere la commozione. Ismael mi ha regalato due caramelle che io non ho nemmeno potuto mangiare. Mi ha regalato tutto ciò che probabilmente aveva.