sabato 31 dicembre 2011

Elise Isabelle e Lazar


Con un insolito anticipo dell’autista, questa mattina siamo partite alla volta di Ouaga. Alle 6 eravamo già nella vettura che quattro ore dopo ci ha scaricato nella caotica capitale.
Quello che è successo dopo è tutto da raccontare anche se rimane indescrivibile.  
Con una coca cola per colazione che, a modo suo, ha riempito le nostre pance e dato risveglio alla giornata, siamo andate alla ricerca di un pranzo, cosa decisamente non facile e pratica nelle strade della città. Non so se, oltre al fatto di non aver la stessa quantità di melanina in corpo, anche essere femmina incida sull’impossibilità di passare inosservata. Fatto sta che dopo aver trovato cosa, ma soprattutto dove mangiare ed esserci rifiondate in camera, la sensazione era la stessa di quando si corre per prendere un autobus che alla fine parte senza di te: stanche, appesantite e anche un po’ snervate. Oltre alle difficoltà del sopravvivere nel disordine del traffico (semafori rossi non rispettati, strisce pedonali inesistenti, branchi di biciclette motorini e carretti, sensi di marcia che moltiplicano le corsie di una strada che di norma ne avrebbe solo due) la procacciazione del cibo  ha messo a dura prova pazienza e nervi: impossibile era passeggiare per le strade. Ragazzi che continuamente cercano di venderti di tutto: da ricariche per i cellulari a spugne, da occhiali da sole a banane. Uomini che con insistenza ti chiamano da ogni angolo in cui è possibile essere notate, a volte con espressioni simili a quelle con cui io cerco di attirare l’attenzione del mio gatto. Ti braccano, fisicamente è impossibile continuare a camminare. Dicono “solo per parlare, solo per conoscersi” ma noi oggi, esasperate dall’insistenza e affamate, non siamo state sufficientemente gentili per accontentare le loro esigenze. Avrei voluto essere semplicemente invisibile, desiderio molto più realizzabile dell’altra alternativa che ci avrebbe permesso di sentirci normali: essere nere.  Ad una donna appoggiata alla porta di una concessionaria Suzuki abbiamo chiesto dov’era possibile trovare qualcosa da mangiare simile a del poulet grillè e con una cortesia che ci ha lasciato stupite e alleggerite ci ha indicato un posto dentro la Maison de peuple, poco distante da dove ci trovavamo. I cinque minuti necessari per raggiungerla li abbiamo camminati a testa bassa facendo finta di non sentire i continui richiami  e facendo altrettanto finta di non sentire i commenti alla nostra indifferenza. Non riuscivamo a sorridere, non volevamo guardare negli occhi quella gente accatastata intorno, zero cortesia, gentilezza, educazione. Dopo ci è stato spiegato (mentre raccontavamo le nostre sensazioni e con un non leggero senso di colpa ad un “esperto” italiano – da 17 anni in Burkina) che questo atteggiamento è l’unico che ti permette di sopravvivere tra le strade della capitale, dove se non ti conoscono e non hanno fatto l’abitudine ad incontrarti, rimarrai sempre e solo un bianco ricco, o comunque qualcuno che ha più soldi di loro. Ma dicevamo… siamo arrivate a destinazione finalmente, al nostro pollo! Una ragazza sorridente ha preso le nostre ordinazioni e ci ha fatto accomodare ad un tavolino, tutto nella norma, almeno fino a quando un ragazzo dopo l’altro non ha cominciato a chiedere di potersi sedere al nostro tavolo. Sfruttando il “nous ne sommes pas françaises” e quindi facendo finta di non capire la lingua; altre volte rispondendo con un secco NO alle loro richieste, ci siamo sbaffate l’ottimo pollo alla griglia con patate (il più buono da quasi due mesi a questa parte). Gli angeli sono arrivati in questo preciso momento, quando restavano le ultime patate sul vassoio. Elise e Isabelle, la prima colei che ha preso le ordinazioni, la seconda la cameriera, si sono sedute al nostro tavolo ed hanno iniziato a chiacchierare, a chiedere di noi. Io e Teresa eravamo emozionate, visibilmente stupite da questa inaspettata e tanto gradita attenzione. Due ragazze, avranno avuto la nostra età, in cinque minuti hanno risollevato la nostra impresa “cibo e sopravvivenza”. Forse per la prima volta in vita mia ho potuto trovare in uno sguardo la comprensione di un’altra donna per questioni di donne; Elise e Isabelle avevano certamente percepito il nostro disagio nell’ allontanare gli altri, sicuramente stavano capendo il fastidio che una ragazza prova davanti a tanta insistenza. L’assenza di secondi fini in questa breve chiacchierata ci ha riempito nuovamente di speranza. Il pomeriggio è proseguito nella calma e tra le zanzare della camera in cui abbiamo alloggiato fino alle cinque, quando ci siamo riavventurate per le strade alla ricerca di un taxi. Meglio del previsto questa ennesima esperienza! Siamo arrivate a destinazione incontrando anche la gentilezza dei poliziotti che, invano ma cordialmente, hanno cercato di capire dove si trovasse la casa di cui eravamo alla ricerca. Una vasca di Italia e poi via di nuovo sul taxi.
Causa varie incomprensioni (lingua… ed io che ero convinta di essermi spiegata così bene!) ci ritroviamo in camera la sera del 31 dicembre senza cena e con nessuna intenzione di uscire per cercarla. Per fortuna avevamo una scorta di pane, olive, nutella e yogurt negli zaini; in più mettici cioccolatini e torroni arrivati direttamente dall’Italia, ci siamo saziate alla grande! Cenone di capodanno con una sedia come tavolino e la musica della città che entrava dalla finestra: indimenticabile… insieme alla tragedia che si è compiuta allo scoccare della mezzanotte con il vasetto di nutella che cade sul pavimento frantumandosi in mille pezzi.
Il giorno dopo siamo ripartite per Toma. Nell’attesa (durata quattro ore e mezza, causa macchina in tilt) abbiamo chiacchierato con Alassane in quei giorni a Ouaga per cercare di racimolare qualcosa per sfamare la moglie e i loro due figlioletti che lo aspettavano al suo villaggio da più di due settimane. Una chiacchierata risanante, ancora una volta perché senza secondi fini. Inoltre decisamente molto interessante perché nei discorsi spesso Alassane ha parlato di “seconda moglie” ed ogni volta, come se fosse sempre la prima, balena nella mia testa che la maggior parte della popolazione qui è musulmana, con la conseguente idea di donna che ne deriva.

Insomma, due giorni tutti da ripensare. Certo è cominciato in me quel percorso di destrutturazione di tutto ciò che credevo di non pensare ma che, inevitabilmente in queste ore, mi sono accorta di fare. Facile è giudicare, facile è puntare il dito, facile è condannare per i modi invadenti, per una fisicità molesta, per un’insistenza ineguagliabile. Destrutturazione di aspettative, miti, opinioni e giudizi; mettere da parte e lasciarmi sconvolgere da quello che mi sta succedendo. È semplice vedere che siamo “altro”, difficile vivere da straniero nella diversità; è rispettoso riconoscere che i loro modi non sono peggiori, ma sono solamente diversi; doveroso è leggere i loro comportamenti verso i bianchi alla luce di tutta la storia del continente nero, a partire dalle loro tribù, passando per schiavitù e colonizzazione, senza dimenticare di questa nuova epoca di neo-colonizzazione.  

Non posso però non raccontarvi di cosa mi ha aspettato al ritorno: un abbraccio pulito e sincero di Lazar, il ragazzo che abita di fianco a noi e che incontriamo tutti i giorni. Una consolazione, una dolcezza, un ristoro. È stato il primo loro abbraccio. Ha degnamente incoronato l’inizio di questo 2012 che, grazie a lui, comincia nel modo in cui tutti (e qui penso ai bambini che incontro ogni giorno) ogni giorno dovrebbero avere il diritto di sentirsi: considerati, accettati e abbracciati per quel che si è.

Buon anno a tutti voi che avete avuto la pazienza di leggermi, con le parole di R.M. Rilke:
“Se la vostra quotidianità vi sembrerà povera, non date la colpa a lei. Accusate voi stessi di non essere abbastanza poeti per chiamare a voi le sue ricchezza. Per il creatore niente è povero.” 
e l’augurio di trovare la bellezza nelle piccole, minuscole cose quotidiane. 

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